Prendete una qualsiasi copia del New York Times, e troverete nell'angolo in alto a sinistra della prima pagina uno slogan di sette parole. "All the news that's fit to print" ("tutte le notizie che vale la pena stampare") non è un semplice motto, bensì l'emblema vero e proprio del giornalismo a stelle e strisce. Cercatelo su Google, e il primo risultato vi dirà che il celebre slogan comparve per la prima volta nel 1896, sotto la direzione di Adolph Simon Ochs.

Ochs. Questo cognome suona familiare. 

Siamo nel 1964, al culmine della guerra fredda e a meno di un anno dall'assassinio del presidente Kennedy. Gli Stati Uniti, che tessono la tela dell'imperialismo economico attorno all'intero globo, si ritrovano eppure intrappolati in situazioni di futile belligeranza (delle quali il fronte vietnamita costituisce un esempio lampante), mentre la paura dell'olocausto nucleare dilaga sempre più. È anche soprattutto in ambienti tanto grigi ed apparentemente privi di speranze che fiorisce l'arte come tentativo di sovversione di un sistema patogeno nelle fondamenta; e si sa, mai come negli anni Sessanta, è proprio la musica che, di tutte le arti, si pone lo scopo di fare da portavoce ad una generazione totalmente nuova dal punto di vista ideologico.

Rinasce così il folk di protesta della scuola di Woody Guthrie e Leadbelly, definitivamente consacrato da Bob Dylan; il Greenwich Village è in fermento, i folk club straripanti di nuove leve del cantautorato. In quest'ambito si muove quasi nell'ombra un giovane appassionato di giornalismo militante: non se la cava benissimo a suonare la chitarra (i critici musicali, pochi anni dopo, definiranno in modo sprezzante la sua tecnica "a zampa palmata"), eppure il talento non gli manca. Phil Ochs, texano, classe 1940, si rende immediatamente noto per le sue visioni radicali e per il suo sarcasmo, tanto da essere invitato ad esibirsi al Newport Folk Festival del 1963 poco dopo essersi trasferito a New York. I tempi sono maturi e Phil, l'anno successivo, registra il suo primo album. Da cultore del giornalismo qual è, ha già deciso il titolo della sua opera: e così, pur non essendoci alcun legame di parentela tra di lui e quel famoso Ochs sopracitato, lo slogan diventa "All the news that's fit to sing" ("tutte le notizie che vale la pena cantare"). È un manifesto del songwriting giornalistico che caratterizzerà la sua intera carriera.

Basta un primo ascolto dell'album per avere le idee chiare. Phil è nel pieno dell'ispirazione, e incide già al debutto alcune delle sue canzoni migliori. La sferzante "One More Parade" apre il sipario: è una critica feroce alla guerra ("quando marciano insieme sembrano tutti uguali / così non si può dare la colpa a nessuno"), scandita dal ritmo di una vera marcia militare. "Talkin' Vietnam Blues" e "Talkin' Cuban Crisis" approfondiscono il filone del talking blues già percorso dal contemporaneo Dylan, analizzando gli aspetti più controversi della guerra fredda; "Automation Song", incredibilmente profetica, attacca il progresso tecnologico macchiato dall'utilitarismo ("cammino su una strada senza lavoro / e dimmi, dove devo andare?"); "Too Many Martyrs" è dedicata a Medgar Evers, attivista e politico assassinato l'anno precedente; "Bound for Glory" è un tributo a Woody Guthrie, principale influenza del cantautore. Non manca inoltre un occhio di riguardo verso la letteratura americana: "The Bells" è una poesia di Edgar Allan Poe, musicata con originalità e brio.

È però con "Power and the Glory" che si raggiunge lo zenit: la canzone, di per sé un inno patriottico alla Guthrie, fu descritta dallo stesso Ochs in fase di composizione, rivolgendosi alla sorella, come la canzone migliore che avrebbe mai scritto. Da essa traspare quel tipo di patriottismo che mette in luce i paradossi più alienanti della propria nazione, un invito alla riflessione per tutto il popolo americano. Ogni critica alla propria terra ("nonostante sia ricca come il più povero dei poveri / libera come la porta chiusa a chiave di una prigione") si risolve nello straordinario ritornello, in cui l'America viene idealizzata con semplici parole e senza alcun gioco retorico, com'è tipico dello stile giornalistico ("ecco una terra piena di potere e gloria / di bellezza che le parole non possono descrivere").

La tecnica chitarristica carente di Phil viene ben celata dalla seconda chitarra di Danny Kalb, chitarrista blues affermato e già amico e collega di Dave Van Ronk. Il risultato è un disco di protesta omogeneo, ben riuscito e di piacevole ascolto, che non ha nulla da invidiare al Freewheelin' Bob Dylan; un vero e proprio capolavoro indispensabile per comprendere appieno una pagina oscura della storia contemporanea.

Carico i commenti... con calma