Pochi gruppi riescono a dividere come i Phish. Chi li idolatra e chi li odia, ritenendoli incapaci di scrivere melodie memorabili, o di saper fare buoni album in studio.
Per conto suo la critica li ha bellamente ignorati per anni, dando spesso giudizi quantomento controversi, innalzando sugli scudi un disco noioso e senza guizzi come Billy Breathes, e trascurando invece i primi fondamentali episodi della loro discografia. E mentre da noi rimangono tutto sommato un fenomeno di culto, negli States fanno concerti oceanici, resi veri e propri eventi dalla loro strabiliante capacità di improvvisazione, che ne fa assieme a Grateful Dead e Allmann Brothers la più grande jam-band della storia della musica rock, un gruppo capace di dilatare dal vivo per ore lo stesso pezzo, con trovate sempre nuove, scatenati nel travestirsi ora da Mahavishnu Orchestra, ora da Allman Brothers, ora da Dixie Dregs.
Hanno come i Dead uno zoccolo duro di fans (anzi di "phans"), i Phish-heads, un pubblico assolutamente inclassificabile e trasversale che li segue adoranti ovunque e che sembra divertirsi moltissimo: più che concerti quelle dei Phish sono vere e proprie feste, in un clima quasi surreale per l'allegria esagerata che si respira, tra palloni tirati sul pubblico che decideranno dovre condurrà l'improvvisazione a seconda del rimbalzo, tappeti elastici e trovate goliardiche d'ogni tipo.
Inquadrare il suono dei Phish in un genere preciso è impresa ardua, ma forse assieme a Ozric Tentacles e Dream Theater sono, nel bene e nel male tra i principali rinnovatori del genere progressive negli anni '90. Certo le differenze tra i tre gruppi sono enormi, risultando accomunabili forse solo per virtuosismo: molto meno muscolari e autoreferenziali dei Dream Theater, e meno psichedelici ed elettronici degli Ozric, i Phish sono probabilmente i migliori del terzetto, vantando dalla loro un enciclopedismo spaventoso e un vocabolario armonico ricchissimo, che trova dei degni rivali solo in Frank Zappa, Tom Waits, John Zorn e pochissimi altri (e come per questi artisti un singolo disco non dà un idea esaustiva delle loro possibilità), anche se con un'attitudine meno anarcoide, anzi con una pulizia di suono e una raffinatezza negli arrangiamenti degna di Joni Mitchell.
Il loro spirito è ingenuo e naif, lontano da tentazioni intellettualistiche, e riassume le contraddizioni di un genere nato per essere "Il genere" intellettuale per eccellenza, ma che a parte pochi casi illuminati è diventato al contrario la vetrina per sterili onanismi, incarnando infine il più totale disimpegno, tra draghi, saghe medioevali e arrangiamenti sempre più pesanti, lambiccati e kitch. La musica dei Phish, non nasconde certo particolari sovrastrutture culturali o messaggi, si limita sì ad intrattenere, ma a differenza della stragrande maggioranza dei gruppi prog, lo fa però con ironia, infinito gusto e leggerezza.
Dopo Junta, una prima autoproduzione, che contiene già perle come "Fee", "You Enjoy Myself" e "David Bowie", i quattro ex-colleghi d'università arrivano al primo capitolo ufficiale, questo Lawn Boy, che ha in copertina l'aspirapolvere che in concerto viene suonato dal batterista Jon Fishman, per giunta travestito spesso e volentieri da donna.
La musica del disco è difficilmente descrivibile: delicata e coloratissima, un vorticoso caleidoscopio di generi che si susseguono e si sovrappongono in continuazione, passando con nonchalance dal jazz al bluegrass ("My sweet one"), dal boogie alla bossanova al blues senza soluzione di continuità, come ad esempio nella splendida "Split Open and Melt", degna delle fantasie barocche di Zappa e Ponty, dove si va dalla fusion al funk passando per un coretto celestiale demenziale, o nell'altrettanto Zappiana ma meno riuscita "Bathtub gin".
Trey Anastasio alla chitarra dimostra un eclettismo difficilmente eguagliabile (un incrocio tra Duane Allmann, Marc Ribot, Pat Metheny e John Mclaughlin), e Page O'Connell è un tastierista dal gusto superbo, ma a stupire è soprattutto l'affiatamento del gruppo, che permette ai Phish di condurre anche una fuga atonale con una grazia sorprendente come in "Reba", il miglior brano del disco, che dopo un bellissimo intermezzo di chitarra fusion si chiude imprevedibilmente con una marcetta.
Rispetto ai live e anche al successivo Picture of nectar (l'altro grande disco in studio del quartetto) il sound è molto meno maschio, ma in questo modo emergono pezzi in punta di piedi come l'iniziale "Squirming coil" in bilico tra jazz e pop, o la melodia incantata e malinconica di "Bouncing Around The Room", fantasia quasi minimalista che conclude il disco con un sorriso.
Questo vero e proprio arcobaleno di suoni è una boccata d'ossigeno, nove brani per metter su un divertentissimo e inconcludente laboratorio di mille musiche, e un prezioso omaggio per gli amanti delle suite progressive e delle jam.
Un cd che rappresenta il Pop nella sua più bella e nobile espressione: da avere.
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