La mia vita scorre serenamente senza i primi due album degli Spooky Tooth. Giorni fa volevo acquistare il debut album dei Silver Apples ma poi mi sono detto: “Oh, cavoli, un altro disco perfetto, da aggiungere alla mia discoteca di album perfetti. Un altro disco per quelli che si vantano. Un altro disco dove buttare giù parole come seminale, avanguardia, precursore di bla bla bla”.
È stato in quel momento che ho deciso di spendere 6€ altrove (Silver Apples costa molto di più, ovviamente). La mia scelta è caduta su “Ceremony”: quello che doveva essere, in teoria, l'album della consacrazione proprio degli Spooky Tooth; quello che, invece, dopo i promettenti esordi dei primi album, ne sancì i titoli di coda.
“Ceremony” è un azzardo elettro-prog-cristico e narra di quel maledetto giorno in cui Gary Wright si fece ammaliare dal compositore strambo francese Pierre Henry.
Il maledetto giorno in cui questa liaison mise la parola fine alle ambizioni degli Spooky Tooth di macinare credibilità lungo il corso degli anni Settanta, prima di essere sfanculati dal primo Richard Hell che passava di là giusto per manomettere gli organetti alla Procol Harum o un ennesimo sottoprodotto di Keith Emerson che proprio negli Spooky Tooth embroniali si era formato.
Ma chi è Pierre Henry, l'assassino degli Spooky Tooth? Henry è un compositore di quelli fini e colti, uno di quelli “precursori della musica elettronica” e della musica concreta, autore, tra l'altro di “Psyché rock” meglio conosciuta come la sigla di Futurama (sorry, Henrì, è la vita).
Henry è stato allievo di Nadia Boulanger, così come lo è stato Philip Glass nei suoi anni parigini, così come allievi della Boulanger sono stati Quincy Jones, Herbie Hancock, Aaron Copland, George Gershwin e tanti, tanti altri. La Boulanger era anche una dolce e agguerrita signora parigina che trattavi con i guanti il repertorio madrigalista (posseggo una copia sgraffignata all'istituto di storia della musica). Nel 1969, Pierre Henry, molto sensibile ad argomentazioni religiose in salsa avanguardista, così in voga nell'est Europa dei Paart, Gorecki e Penderecki, decise di coinvolgere gli Spooky Tooth (ma perché proprio loro?) in questa sorta di concept album con una copertina memorabile: la testa di un uomo trafitta da un chiodo. Chiodo che è possibile sentire nell'album e non è neanche la cosa più strana.
Tra l'altro, l'ingegnere del suono di questo Ceremony è tal Andy Johns che dopo anni di pifferini, flautini e carovane di moog, decideva di strizzare l'occhio al Richard Hell pensiero e di lì a breve avrebbe manomesso gli organetti anche lui per ritrovarsi a produrre, squilli di trombe, Marquee Moon dei Television.

“Ceremony”, invece, non è molto amato, né dagli amanti delle classifiche del Rolling Stone, né dagli scaruffiani, né da quelli che ciclicamente riportano in auge il floppone incompreso trasformandolo in cult. Non lo salva neanche Julian Cope (che invece sbava su Electric Sotrm dei White Noise) e questo mi ha un po' sorpreso, soprattutto il suo accanimento verso i banali riff dell'album. Cioè, chi se ne frega dei banali riff di Ceremony: questo disco è così strano che a tratti vi sembrerà di ascoltare due, tre, quattro album contemporaneamente, come quando si impalla il Chrome e partono insieme tutte le finestre aperte di youtube. È un album che ha delle atmosfere clamorose; raccontano di una fusione tra due mondi lontani spesso non riuscita, sovrapposta, forzata, poco fluida.

E poi è un album religioso. È un album che racconta una cosa straordinaria: il balbettio dell'uomo davanti al terrore di abbandonare tutto e vivere insieme alla sequela degli ultimi al passo di Cristo.

Un messaggio molto più forte del manierismo della psichedelica Messa in F minor degli Electric Prunes, il presuntuosetto “La Bibbia” del Rovescio della medaglia o il garage ipocrita e kitsch degli Angel & the Brains, precursori italici della “messa beat” (pratica che ha dato il là al repertorio musicale sacro italiano fatto di arranger di tastierina e tutto il peggio del peggio del peggio, nella terra del Palestrina).

Ceremony è un album che ha un qualcosa che altri lavori di genere non hanno: l'acre sapore del tentativo. Il tentativo estetico di raccontare in musica il rapporto, spesso conflittuale, tra l'uomo e Cristo. Parlarne bene è un po' come sedersi dalla parte del torto, laddove buona parte degli accomodati dalla parte della ragione si stanno chiedendo chi cazz'è Pierre Henry, chi diavolo sono 'sti qua, come fa un tizio a inserire in un testo i madrigali, Futurama, Quincy Jones e i Television.

Credo di poter affermare che questo è un album sperimentale proprio come il contemporaneo Canaxis di Holger Czukay (allievo di Stockhausen ancor prima che leader dei Can) e anche quello, sì, precursore, seminale, avanguardia e – per dirla con Julian Cope - “ancora avanti al giorno d'oggi”. Tutto vero. E viva Czukay, i Can e Stockhausen.

Però, seduti dalla parte del torto e degli acri tentativi, queste frasi le risolviamo con un martello e con un chiodo conficcato in testa. In fondo, siamo noi gli uomini dei chiodi conficcati, vittime della passione che pretendono di comprendere le virtù. E così sia.

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