Finivano gli anni ’70 e guardavamo Napoli dall’alto. Ed era un alto geografico e non certo morale. Noi, giù al nord, avevamo un’ammirazione sconfinata per questa città bellissima, solare, sorridente, divertita e divertente, cui purtroppo andavamo (almeno io…) troppo poco e troppo di rado. Ed eravamo felici che dalle nostre parti fosse saltato fuori quel Paolo Conte che non pareggiava i conti, ma almeno ci rimetteva in partita… Napoli esprimeva, da tempo immemorabile, una grandissima cultura. E quella che si viveva allora era ancora splendidamente viva e vivace.

Totò e Peppino erano un ricordo non troppo lontano, e Murolo era ancora vivo e operante, anche se non ancora rivalutato in pieno. C’erano sì anche Merola e D’Angelo, ma erano l’altra faccia (quella, se vogliamo, più nazional popolare) di una medaglia di grandissimo valore e significato. C’era Bennato, il cantautore che ha saputo coniugare Dylan, Battisti, una svariata serie di altissimi riferimenti blues e la napoletanità più pura. C’era tutto il giro di Napoli Centrale. C’era James Senese con quella faccia da nero e quel sassofono dal suono meraviglioso, c’era Avitabile, anche lui con un sassofono degnissimo ed una manciata di dischi bellissimi, e c’era una scuola di percussionisti e batteristi da fare impressione e invidia a qualunque tipo di concorrenza: De Piscolo, Esposito, Jermano, Marangolo solo per citarne i massimi maestri. E c’era poi un fenomeno tanto cretino quanto geniale e spassoso, simbolo di una delle tante facce di Napoli e del Sud, quella scanzonata, assolutamente indisciplinata e irresistibile: gli Squallor. E c’era l’Arbore d’adozione…

E poi c’era lui. Pino. Pino Daniele. Ed esordiva con questo disco con ancora tantissima tradizione e qualche piccolo aperitivo di quel Blues che abiterà, ospite graditissimo e forse padrone di casa, i suoi dischi immediatamente successivi. Quelli bellissimi e geniali che segneranno il passaggio dai ’70 agli ’80. E dentro questo disco, che era “Terra Mia”, c’era una canzone splendida, che diventerà un classico della canzone italiana, a tratti snaturato, violentato e sicuramente abusato come tutti i classici. Un’armonia bella e non banale, una voce di napoletanità provata oltre ogni ragionevole dubbio e un testo grandioso, come sapevano essere grandiosi di testi di Pino quand’erano dialettali e, perdonate, quand’erano qualificabili come testi e non come bigliettini dei baci perugina. E “Napule è” raccontava di questa Napoli che c’immaginavamo, così come ce la immaginavamo, di mille colori, piena di voci di bambini che non ti fanno sentire solo. Una città di umanità profonda. Vera e viva. Poi, pian piano, per eccesso di successo e perché, in fondo, sugli allori ci si siede sempre, Pino è andato scomparendo insieme a tutto il resto. Qualche colpo di coda incazzato è arrivato con Almamegretta e 99Posse, ad illuderci che la vivacità fosse ancora lì, anche se purtroppo aveva perso definitivamente il sorriso. Poi, neanche più loro.

Oggi, sempre da qui, giù al nord, si vede una Napoli plumbea, triste, senza neanche più la forza d’essere incazzata. E sicuramente senza voglia di ridere. In mano alla criminalità e troppo spesso dalla parte della criminalità. Nelle radio la musica di D’Alessio e Tatangelo. Napoli, fai un piacere a tutti e vedi di tornare. E qualcuno mi dica che è un incubo.

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