Negli ultimi anni si è sdoganato, o per lo meno tentato di sdoganare, ogni sorta di mercanzia: dai "valorosi patrioti" della Repubblica di Salò ai Cugini di Campagna, da Bettino Craxi "esule perseguitato" ai film trash di Alvaro Vitali, senza tener conto che "trash" alla fin fine non vuol dire altro che "spazzatura", e per quanto lo si possa pronunciare con tono chic, la sostanza rimane appunto quella.

Chissà se ci sarà spazio anche per la riabilitazione di Piotr Ilyich Tchaikovsky da parte di chi è qualificato come esperto in un campo così immenso quanto incompreso e mistificato come quello della musica classica. Per quanto riguarda i semplici appassionati come me lo sdoganamento è già avvenuto da un pezzo, o meglio non ce n'è mai stato bisogno. Tchaikovsky è praticamente da sempre una fonte sicura e inesauribile di melodie fantasiose e ispirate, da quelle disperatamente tristi delle sinfonie a quelle ingenuamente fatate dei balletti. Certo non si può pretendere altrettanta sincera passione da parte di uno di quegli speaker erremosciuti e saccenti di Radio Tre che sembrano messi lì apposta per allontanare chiunque abbia una benché minima curiosità nei confronti della musica classica. Costoro preferiranno senz'altro ammannire ad altri iniziati come loro la solita inestricabile e inascoltabile dodecafonia novecentesca, oppure la solita opera buffa minore, poco o mai rappresentata perfino all'epoca in cui fu scritta, il tutto naturalmente condito dal solito linguaggio astruso. Finché ci saranno "operatori culturali" del genere il rischio di conoscere Tchaikovsky per questa via è pressoché inesistente: al massimo potrà capitare qualche oscuro frammento di una sua opera lirica, ma le "popolari" sinfonie, per non parlare dei pirotecnici concerti, verranno accuratamente evitate.

E invece è proprio nelle sinfonie, e in particolare nelle ultime tre (la Quarta, la Quinta e la celebre Sesta, detta "Patetica") che il compositore russo si rivela non solo un infaticabile creatore di motivi, ma anche un orchestratore di prim'ordine, con soluzioni timbriche originali e a tratti così incredibilmente moderne da anticipare in parte il ricco "cromatismo" degli impressionisti come Ravel. Proprio su quest'ultimo aspetto si basa una spietata e ingiusta autocritica da parte dell'autore, che riguarda proprio la Sinfonia n° 5 in mi minore Op. 64, se non la più nota sicuramente la più intensamente sofferta di questa immaginaria trilogia. Tchaikovsky come al solito scrive alla sua grande amica, confidente e pigmaliona Nadezhda Von Meck, dicendo tra l'altro: "...mi sono convinto che essa (la Quinta) è mal riuscita. Vi è in quest'opera qualcosa di sgradevole, una certa diversità di colori, una certa insincerità, un certo artificio...". Colpisce soprattutto il riferimento alla diversità di colori, bollata come se si trattasse di una tara, mentre invece è parte integrante del fascino di questa tormentata composizione, che nonostante l'auto-stroncatura e le prime esecuzioni non trionfali, ben presto sarebbe entrata stabilmente nei programmi dei concerti, dove la possiamo trovare ancora oggi, sia pure con meno frequenza della "Patetica".

La già citata diversità di colori è lo specchio della varietà altalenante di stati d'animo che la Quinta Sinfonia esprime, varietà che a sua volta riflette la personalità tortuosa e instabile di Tchaikovsky, la sua tendenza, da autentico depresso, a passare in un attimo dalla disperazione più nera a frenetiche impennate di esaltazione oppure ad inattese oasi di beata serenità. Per quanto la nota dominante sia la malinconia, lo stesso tema che apre la sinfonia per poi costituirne il leit-motiv, può apparire sotto forma di una voce da oltretomba, esalata dal registro più cupo e spettrale immaginabile per un clarinetto all'inizio del primo movimento, ma anche sotto forma di una nervosa e decisa marcia verso il proprio destino, scandita da una fanfara di ottoni nell'ultimo movimento. E in effetti il vero "motore" della Sinfonia è proprio la lotta tra l'uomo e il fato, come si intuisce dalle note dello stesso Tchaikovsky (cito per esempio proprio quella associata all'inizio del primo movimento: "Introduzione. Completa rassegnazione al Fato oppure, il che è lo stesso, agli imperscrutabili decreti della Provvidenza...". Qualcuno noterà che tutto ciò non è nuovo: un certo Beethoven aveva già espresso l'eterna lotta contro il destino in forma di sinfonie, e che sinfonie... roba come la Quinta e la Nona !  Solo che nel suo caso, a prescindere dal trionfo finale, era la lotta stessa che aveva le caratteristiche di un'impresa titanica, mossa da un'eccezionale tensione. Con Tchaikovsky niente di tutto questo: la sua è la contorta e discontinua lotta di un uomo fragile contro le avversità della vita, con i suoi inevitabili rovesci, segnati dagli inconsolabili scoppi di pianto degli ottoni nel secondo movimento, e le sue fugaci illusioni, come il tenero valzer del terzo.

Data l'estrema ricchezza e complessità dei motivi conviene vedere i quattro movimenti un po' per sommi capi, a partire dal primo ("Andante. Allegro con anima"), di cui ho già citato l'introduzione agghiacciante. Il seguito è come una sorta di lenta e progressiva rianimazione del "paziente" Tchaikovsky dallo stato d'animo iniziale, vicino alla catatonia. Ben presto l'andamento assume le caratteristiche di un "Allegro", termine in questo caso quanto mai ambiguo. La vitalità non manca, ma è quella della disperazione, che trova il suo sfogo in ripetuti scoppi di timpani e trombe, alternati a melodie di largo respiro affidate  agli archi.

Il secondo movimento ("Andante cantabile con alcuna licenza") è una delle pagine più divinamente ispirate non solo del tardo Romanticismo, ma della musica classica in generale. L'assolo iniziale del corno espone in tutta la sua delicata trasparenza un motivo così puro e semplice da potersi imparare già dal primo ascolto, sul quale a sua volta l'oboe va ad innestare con discrezione un secondo tema altrettanto commovente, che sembra evocare dolci ricordi lontani. Gli sviluppi successivi e gli intrecci di questi due temi offrono combinazioni melodiche infinite; come se non bastasse l'orchestra si unisce con tutta la sua forza e ben presto anche in questo, che pure sarebbe un movimento lento, si arriva ai furiosi scoppi di trombe e timpani che punteggiano un po' tutta la sinfonia.

Un po' tutta a parte il terzo movimento ("Valse. Allegro moderato"), un vero e proprio valzer, non meno incantevole di quelli arcinoti del Tchaikovsky dei balletti (Il lago dei cigni, Lo schiaccianoci). E' quella preziosa oasi di pace che ogni tanto viene concessa anche ai caratteri più fragili e ipersensibili; naturalmente però è effimera e non a caso questo è di gran lunga il movimento più corto.

Con il "Finale. Andante maestoso. Allegro vivace" riappare il tragico tema che apre la Sinfonia, anche se nettamente più sostenuto. Brusco e quasi inatteso entra poi il tempestoso "Allegro vivace", quasi una parvenza di trionfo, contrastato però dal ritorno implacabile del tema iniziale, che per quanto stravolto e deformato dallo slancio che ormai la Sinfonia ha preso, sembra voler restare attaccato all'autore come una maledizione fino all'ultimo. E in effetti nel finale è ancora presente, il che lascia qualche dubbio sull'esito finale della furiosa lotta ingaggiata contro le avversità, ma non sul fatto che il pur fragile Tchaikovsky in questa battaglia ha dato davvero tutto quello che poteva.

Mi accorgo che la recensione sta assumendo, per fare un paragone sinfonico, dimensioni "mahleriane", e quindi non mi resta che consigliare un'interpretazione della Philadelphia Orchestra diretta da Riccardo Muti, appassionata e intensa come una Sinfonia del genere richiede. 

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