Premessa : recensione scritta da un fan.

Sono stato in dubbio fino all’ultimo se utilizzare il mio biglietto acquistato mesi fa e rischiare in questo modo di rovinare il mio ricordo più bello in fatto di rock e cioè il concerto dei Folletti a Milano, all’Alcatraz, 30 anni fa. Le premesse non erano affatto buone : al di la del fatto che faccio parte della schiera di pixomani che non ha mai elaborato fino in fondo il lutto per la dipartita (artistica) di Kim Deal, il mio timore era soprattutto quello di assistere all’ora e un quarto d’ordinanza per presentare gran parte dell’ultimo album, qualcosa degli altri due ed infine qualche concessione ai buontemponi come me venuti per ascoltare roba seria (e per roba seria intendo TUTTE le canzoni dei primi 4 album). Ho fatto bene a rischiare. Nonostante l’acustica del Paladozza, immagino ottima per un incontro di basket ma francamente discutibile per un concerto di questo tipo ; nonostante abbia avuto la stupida idea di rassegnarmi alle tribune concedendo il parterre ai giovani punk rockers ; nonostante il nostro uomo continui a mangiare ancora evidentemente troppo e che si sia infilato in un completo nero che lo fa sembrare un tanghero sovrappeso ; nonostante la rosa infilata sul ponte del basso di Paz Lenchantin sia pateticamente adolescenziale quasi a voler scusare la presenza dell’”intrusa” mostrando un segno di pace ; nonostante un povero stronzo continui a fischiare la povera Paz tutte le volte che prova a cantare da sola (spero tu legga, povero stronzo) ; nonostante in effetti forse il povero stronzo non abbia tutti i torti visto che è inevitabile avere la sensazione che la bassista sia una controfigura ; nonostante Joey Santiago continui dopo trent’anni ad avere alcune incertezze nel suonare la chitarra ; nonostante questo vi dico che ho visto un concerto maestoso, 2 ore di musica senza pari (intervallata da rarefatte inserzioni pubblicitarie : le canzoni nuove, per intenderci), del solito misto furioso di rock folk punk rockabilly, di suggestioni western ma anche hawaiane, il solito misto di dolcezza melodica e follia urlante, di soluzioni ritmiche e melodiche figlie di una breve ed intensa stagione di magia. Solo musica, neanche una strizzatina d’occhio, neanche una parola. Una cavalcata ininterrotta di brani che ti spezzano il cuore (pure la iperabusata “where is my mind” è stata suonata con determinazione e rispetto, ed avevo paura degli accendini, anzi dei cellulari, ma tutti hanno tenuto le mani a posto, evidentemente eravamo 6000 persone per bene …). Si parte, come successe trent’anni fa, con “Cecilia Ann”, e già mi commuovo, poco dopo è il turno di “brick is red”, la mia canzone preferita in assoluto (tra tutto ciò che abbia mai ascoltato fino ad oggi) e li piango in silenzio, riconoscente. Poi tante cose belle : “Crackity Jones”, “number 13”, “Caribou”, addirittura “winterlong” di Neil Young e “la Isla de encanta” che il Paladozza trasforma in un convoglio sferragliante ed apocalittico che attraversa qualche deserto messicano. “Gouge away”, “Tame”, “Bone Machine”, “Vamos”. E chiudiamola qui. Una sequenza impressionante di capolavori leggermente appesantita dal materiale più recente. Alla fine sono loro, i folletti, a sorprendersi e a sorridere compiaciuti del boato con cui una folla di italiani perlopiù coetanei li ringrazia per questi trent’anni passati ad ascoltare le loro canzoni. Che a me non hanno mai stancato

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