The Estate of POLARBEAR : Something of Nothing

I would put you to sleep you know i would / to the shit they play on the radio

when everybody things they're flying / has anybody even left the ground ?

how can we all be so happy licking off the same stick ?

I'd dress you up you know i would / in all the clothes i think you should

when everybody's beautiful is anybody even beautiful ?

i won't ask you what i don't want to know

i might see you but i don't know you / i don't believe you and i won't follow

how can we all be so happy licking off the same stick ?

(Lick - POLARBEAR)

 


POLARBEAR corrisponde al nome del progetto, attivo tra la metà e la fine degli anni novanta, dietro al quale operavano Eric Avery (ex bassista e songwriter dei primi Jane's Addiction) e l'ex batterista e campionatore degli Ethyl Meatplow Harold "Biff" Barefoot Sanders III, coadiuvati alle chitarre da Dani Tull e Andrew Troy (il primo artista visivo che espone le sue opere in gallerie internazionali, il secondo insegnante di musica attivo nell'editoria), più altri membri (Thomas Von Wendt e John Curry alle chitarre, Yvonne Bas Tull, moglie di Dani, come back-vocalist) che si sono avvicendati nel corso del troppo breve e altalenante percorso musicale del gruppo.

 

Band anomala e realmente interessante artisticamente, resasi protagonista di appena una quarantina di performances, relegata irreversibilemente e irrimediabilmente all'underground losangelino, ha prodotto in realtà poche cose: un vinile di Remixes, un EP e un Album nel giro di pochi anni, lavori diversi tra loro che mettevano insieme un inedito mix tra elettronica, funk sudicio e rock alternativo, l'amore di Avery e Sanders per vecchi computers, nuove tecnologie e samples d'epoca, uniti a testi estremamente personali ma allo stesso tempo contraddistinti da una distanza emotiva degna di un list-maker.

Uno strano intruglio musicale tra Portishead, i coevi (ugualmente incompresi) Beta Band e Wire.

Il leader del progetto era chiaramente Eric Avery, qui depurato quasi completamente dalle tossine Post-Jane's Addiction e dalle pesantezze industriali del precedente progetto Deconstruction, che anche qui non rinuncia (e non potrebbe) alle sue cupezze liriche concettuali, anche se il distacco emotivo da ciò che scrive ed esprime si fa più importante.

L' Estate dell'Orso Polare è caratterizzata da una semantica musicale obesa e stanca, immersa in un'elettronica a bassa fedeltà, tra il fantastico lavoro di incroci chitarristici mai banali ed originalissimi di Tull e Troy, e con le basse linee di Avery qui diversamente collocate, delegate ad un ruolo completamente diverso del basso elettrico, ora campionato, ora suonato dal vivo. La poetica dell'universo POLARBEAR pare svilupparsi in periferia, tra cibo spazzatura e bibite gelate. Così come la Siberia dei Diaframma non era luogo geografico ma disposizione mistica, l'Alaska dei POLARBEAR non è una questione territoriale ma una condizione dello spirito, non stato meteorologico, ma un'Alaska dell' anima. L'animale POLARBEAR è una bestia introversa. Le vie che percorrevano i PBR a fine millennio erano il contrario dell'hipsteria, mai stati cool come Avery già declamava nei Deconstruction, si attraversavano geli umani e strade blu livide e malmesse fuori dai confini del rock alternativo americano all'epoca divenuto di consumo. Qui il discorso si spostava sullo spessore e sulla profondità: musicale, lirica, produttiva, generando suoni e umori che più che costituire musica, rappresentavano un' espressione sentimentale urgente tradotta in una sorta di psichedelia ferita tardo-tardissima californiana, meno violenta e forse più serena, ma non più risolta, del gotico-californiano di Deconstruction (1994).

 

La prima uscita ufficiale dei PBR è una cover dei Wire incisa per una compilation dedicata al gruppo londinese: Whore - Various Artists Play Wire (1996). Qui il gruppo reinterpreta e propone una versione molto sofisticata di "Being Sucked In (Again)" prendendo a prestito per l'introduzione la coda di un altro pezzo del complesso d'origine "A Touching Display".

 

Qualche mese più tardi arriva la prima pubblicazione "grossa" per il gruppo. Si tratta di un vinile per la Man's Ruin Records che raccoglie sei pezzi strumentali remixati (o meglio pre-mixati) della band che poi finiranno sui successivi EP ed Album, ad eccezione di "Nu Flesh". Il vinile porta il titolo Polar Bear (12", Blue Translucent - 1996). Si tratta, in realtà, di una uscita abbastanza inusuale, alla luce del fatto che in genere, nell'ambito della discografia, si rilasciano sempre prima gli album in original-mix e dopo qualche tempo esce fuori il relativo album di remix. Loro qui evidentemente pensano e fanno all'incontrario. Ma tant' è. Il vinile risulta essere uno strano esempio di musica lounge, con le sue atmosfere rarefatte ottime per uno spazio chill out.

 

Nel Maggio del 1997 esce per la Dry Hump Records l'extended play dell'esordio vero e proprio del gruppo, vale a dire Chewing Gum EP. Composto da cinque tracce, si presenta come il sigillo del primo periodo PBR, quello più pesante e metallico musicalmente e decisamente più percussivo. In questo episodio sulla breve distanza "Monkey" è una flemmatica e poi dirompente e poi flemmatica ancora analisi evoluzionistica ("Where I once saw a working stiff I see a noble monkey..."), o meglio de-evoluzionistica ("clock back in again..."), condotta da Avery, bordata da un meraviglioso violino e da evocativi feedback elettrici, "Gimmee" rappresenta una speculazione quasi filosofica sulla pesantezza, onnipresenza e ingannevolezza delle religioni, "Water" uno sfogo liberatorio mentre si osservano delle acque che scorrono tra gli edifici e ripuliscono le strade dal fetore della società moderna, l'heavy-jazz-lounge di "Leader" (con una deflagrazione sonora finale da brividi) è invece una sarcastica derisione della leadership mediatica di facciata che colletti bianchi e "nuove razze di leaders" si auto-attribuiscono immeritatamente ("show me a new breed of leader, a tabloid superhero..."), con estemporanee crisi d'identità che forse riguardano solo la sensibilità del loro autore ("I've got to ask myself who's life am I living?"). Ma "Leader" è anche il commiato per il vecchio Eric Avery che da qui in poi non sarà più lo stesso freak ombroso ed intellettuale che avevano conosciuto i fans dei Jane's Addiction. Sono lontani quei tempi e sono lontani pure i tempi della cultura-junkie che avevano caratterizzato Avery fino al progetto Deconstruction, e lo strano ed ambiguo surfer-blue dai capelli orange-shocking del leggendario gruppo di L.A. si è reinventato in un osservatore attento, scientifico, distanziato, sempre più terribilmente e nervosamente vigile circa il circostante, tanto da sottolineare ripetutamente, con un certo orgoglio, di non essere più la stessa persona dei tempi che furono: "I was then but I am now..."

 

Anno 1999. Finalmente i POLARBEAR approdano al tanto agognato (e unico) long-playing.

Why Something Instead Of Nothing ? (POLAR BEAR RECORDS - 1999) esce a Febbraio di quell'anno. Totalmente autoprodotto verrà distribuito perlopiù ai concerti della band e in qualche negozio di musica alternativa degli States. Nessuna delle Label indipendenti USA se ne occuperà adeguatamente. La promozione dell'album sarà oltremodo insufficiente e oggi il disco risulta fuori catalogo, ma nonostante ciò la qualità assoluta e definitiva del lavoro non ne sarà minimamente intaccata. Registrato al Motiv Studio di Biff Sanders, posizionato nella zona Downtown di Los Angeles, Why Something Instead Of Nothing ? è già da un'altra parte, già notevolmente distante da suoni, umori, atmosfere e approdi dell'EP che l'aveva preceduto. Marchiato da un suono fumoso, come un'evaporazione inquinata ed appiccicosa che esala lenta da un All Night Diner etnico di quart'ordine all'interno di un quartiere qualunque della grande città, questo album è il testimone definitivo del magma del suono POLARBEAR: Electro-Junk più che electro-funk, un album dal carattere profondamente urbano, una osservazione sull'human-junk dei suburbians americani. "Lick", il brano d'apertura, inizialmente lento poi sempre più rumoroso e prorompente fino al poderoso climax finale, è l'ultimo lascito delle spigolosità sonore dell'EP precedente. Con "Friday" siamo già dalle parti di un'elettronica fragorosa e disturbante, con i suoi clangori industriali claudicanti ed echi di trombe da film noir. "Hula" ci introduce ad un disco-slow inquietante quanto incomprensibile, un ingranaggio ludico basato su un contrasto di basso synth e charleston sorretti dai cori sensuali di Yvonne Bas Tull e accompagnati da brevi accenti di ritmica funk sotto un misterioso sole tropicale gelatinoso e psicotropo, infido e malsano ("sweet green fruit a bright orange sky I slide between your tropical isle thighs... / my telescope shows me there's hope but not enough rope to tie to the sky... / an early moon might save me... i don't want to die tonight..."). "Sharkeye" è il primo passaggio propriamente demoralizzato e desolato dell'album in cui comincia a manifestarsi una certa rassegnazione alle cose della vita ("on days like these... / it's left me a little sick..."), con accenni di scratches, contrappunti di violini sintetici e soprattutto con un indescrivibile finale crepuscolare avvolto dai synth ipnotici di Sanders, dalle nenie compulsive dei chorus di Yvonne Bas Tull e dal mantra ossessivo di Avery che continua a ripetere: "One big black shark eye looking down from the sky..." creando un'atmosfera infausta minacciosa ed apocalittica. Una musica finto jazz-lounge intellettuale contornata da samples di sax e da tremori, osservazioni e quesiti esistenziali sotto un cielo californiano chimico avvolto in tramonti acidi e vaporosi: così ci si para davanti "Shafty". Il sole va giù e si rimane preda di senso di smarrimento ed inconfortevoli dubbi ("I hear the sea it speaks to me, am I old or am I new again?") . D'altra parte, così come il titolo interrogativo dell'intero lavoro, tutto il non-concept lirico dell'album si pone domande in continuazione. Ininterrottamente. E' la volta di "Flyer", un malinconico bozzetto elettro-acustico caratterizzato da un intermezzo strumentale di una classe fuori dal comune, con archi, piano, un bellissimo suono di batteria e un incantevole contrabbasso campionato. "Flyer", dedicata ad un amico scomparso di Avery, è una micro-opera sulla volatilità degli affetti ("you're an agile flyer...") e sull'inafferrabilità e la sfuggevolezza della vita e dei rapporti umani ("some hang on tenaciously and some let go so easily... / you always seems to be leaving..."). Siamo a "Bodybag", forse il pezzo meno riuscito dell'album, anche se la profonda e pregevole svolta strumentale della seconda parte risulta più che degna di nota. Viene il turno di "Farm", da cui fuoriesce una certa disperazione pneumatica, claustrofobica. Sicuramente valorosa musicalmente, con un organo analogico portante e con sullo sfondo chitarre liquide in penombra. Forse un pò forzata liricamente con i suoi reiterati riferimenti al Vietnam. Ci sarebbe da precisare, probabilmente, che se il riferimento, nelle intenzioni dell'autore del testo, trascendesse i soli fatti degli anni sessanta per rappresentare il simulacro dell'imperialismo USA fino ai giorni nostri, allora il richiamo potrebbe essere considerato anche consono e puntuale, ma non tutte le intenzioni degli autori c'è dato sapere. Ognuno lo interpreti come vuole. "Belly" è l'ineducato scherzo musicale dell'album, una filastrocca di alleggerimento di poco più di un minuto e mezzo posizionata prima della fine. Chi con i POLARBEAR avesse già una certa familiarità sa che essi spesso hanno a che fare con degli stomaci, sani o malati, forti o meno. Lo stomaco di un architetto, lo stomaco di un ex campione, lo stomaco di un insetto, insomma, ci si trova nello stomaco di un orso polare. L'ultimo pezzo dell'album, quello con il quale termina questo naufragio esistenziale sconsolato dell'orso polare è "Zulu". Contrassegnato da un ulteriore senso di estraniamento, "Zulu" sembra far emergere anche un certo malessere occulto, per la prima volta non di carattere squisitamente individuale, ma anche ambientale. Il vagabondaggio sentimentale al quale si è sottoposti coinvolge dopotutto anche lo stato della nazione, ma a questo punto, dopo tutto questo errare e arrancare, non si rinuncia umanamente ad uno spiraglio di luce salvifica. Una redenzione è possibile e auspicabile:

"No shot at redemption, no shot in the dark, no shot at redemption, no shot..."

 

Why Something Instead Of Nothing ? giunge al capolinea così, con una domanda in loop nel cervello che continua a restare irrisolta: perché qualcosa invece del nulla?

La Los Angeles messa in disamina in questo album, e in generale nel taglio-nerd che i PBR gli diedero era chiaramente una Los Angeles guardata con un occhio trasversale, un occhio critico diverso. Niente sogni californiani in technicolor, ma crudi ritratti urbani in low-fi electronics e paesaggi onirici per disillusi, piogge acide viola e arancioni. Purtroppo dopo quest'unico album i POLARBEAR si sciolsero. Gli ultimi vagiti furono un paio di pezzi registrati col produttore Rich Costey, "Satellites" e "Super Zero", che nella loro versione demo appaiono meno tempestati dagli orpelli elettronici dei lavori precedenti del gruppo, ma più suonati e rinnovatamente duri.

I PBR stavano trans-formandosi di nuovo, fedeli al loro sperimentalismo dinamico e alla loro inquietudine compositiva e tematica che hanno segnato totalmente il loro momentum. Non sapremo mai come sarebbe andata, mentre stavano cambiando si sono interrotti.

Tuttavia la stagione dei POLARBEAR rappresenta una per niente mancata occasione, ma anzi, una luminosa traccia delle reali forze musicali alternative della Los Angeles degli anni novanta. L' Estate dei POLARBEAR lascia comunque in eredità un Album, un EP e un'altra manciata di pezzi unreleased di altissimo valore artistico-espressivo e soprattutto la testimonianza diretta di una Los Angeles altra, una Los Angeles dalle sembianze inconsuete e infedeli al racconto pervenutoci, una Los Angeles dalla tenuta emotiva interiore trattenuta - quasi costretta, sempre soleggiata e sgargiante, ma chimica, intossicata, esasperata e allucinata, imbottita di caffeina, devastata da chissà quanti e quali altri additivi, smaniosa, senza sonno e implosa: in fondo, una Los Angeles come se si fosse in una provincia arida e radioattiva senza futuro, cresciuta tra detriti cancerogeni e scarti termo-nucleari, dove tutto è remoto e senza controllo. Un sound industriale stonato, in bad-trip, da periferia psichedelica deturpata nero petrolio, pallida e perduta, da Daytime Television (come recitava un loro pezzo), tra prodotti commerciali confezionati in uno sweat shop di Taiwan che esplodono e malati di mente paranoici che prendono forma in vicoli bui, tra visioni grigie o lisergiche offuscate e alterate da benzodiazepine. Assaggiando qualcosa del nulla, dell'amaro nostro vuoto.

Una luna precoce potrebbe salvarci, mentre continuiamo a contemplare in preda all'ansia..

Something of Nothing.

 

- there has got to be a morning sometime


PBR music:

per Why Something Instead of Nothing ? e Chewing Gum EP: https://soundcloud.com/ericavery

per info PBR, Chewing Gum EP e Vinyl Remixes 12": http://somediverswhistle.com/ericavery/

(tutto in open source e/o free download. nessuna infrazione di copyright - so.. enjoy!)

 

Over and Out........

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