"Il piacere dell'attesa"

Anche se per indole non amo aspettare, adoro al contrario lo stato di frenetica attesa per qualcosa che desidero, persona o cosa che sia. Ecco perchè, dopo almeno 5 anni di download selvaggio, mi sono accorto che qualcosa dentro stava morendo. Il suddetto piacere dell'attesa, parte integrante del mio rapportarmi con la musica da sempre. Eh sì perchè per un po' di tempo ho pensato (e penso tuttora) che il download fosse un ottimo mezzo per promuovere la propria musica (da parte dei musicisti) e per scremare la merda dalla roba valida (per gli ascoltatori). Ma sottovalutavo il fatto che un disco non è solo la musica che contiene, almeno non per me. Ciò non vuol dire che un artwork bellissimo può farci dimenticare la musica qualitativamente merdosa che contiene, ma se l'impatto visivo e musicale combaciano, il connubio che ne scaturisce aumenta la portata di entrambi.

La smaterializzazione del supporto musicale ha dotato sì di praticità, leggerezza e potenziale ubiquità, la musica, ma a lungo andare sta raffreddando il nostro rapporto con la stessa. Fra un po' i dischi saranno solo digitali, e l'idea del rapporto artwork-musica andrà a farsi benedire, come già l'idea stessa di "album", visto che le limitazioni di spazio disponibile su un supporto (vinile o cd che sia) sono oramai un ricordo. Ed è difatti quando ho cercato di interpretare  in prospettiva futura questa tendenza, che ho avuto paura di perdere tutte le sensazioni extra uditive che mi legano alla musica. E ho incominciato a comprare meno, spesso dai pochi negozi di dischi rimasti, possibilmente in vinile. E a sentire meno, e quindi meglio, ciò che scarico.

Sarà stata questa presa di coscienza, ma come d'incanto mi sono ritrovato con un po' di bei dischetti per le mani in questi due tre mesi. Il che mi fa pensare che sbagliavo nel dire che negli ultimi anni di musica bella ne venisse fuori poca. Semplicemente quasi nessuno riesce più a dare il giusto tempo ad un disco, e, almeno per gli ascolti che prediligo, il tempo è fondamentale. Uno dei dischi letteralmente cambiati dopo l'acquisto e un ascolto attento, ma senza fretta, è proprio il secondo parto dei barbuti Pontiak, già recensiti lo scorso anno con il loro ottimo esordio.

"Maker" prova a spostarsi dai territori psych post blues e roba simile del precedente, per prendere una deriva più sconnessa, quasi post punk in certi brevi accenni strumentali ("Headless Conference"), pur mantenendo un andamento ipnotico ossessivo degno di nota (emblematico l'incedere da Sabbath sotto sedativi dell'iniziale "Laywayed"). Chiave di lettura proprio i tanti brani brevi, spesso appenna abbozzati o interrotti bruscamente ("Wild Knife Night Flight" meritava almeno un 30 secondi in più!), che fanno da contorno a due pezzi lunghi: i 5 min e rotti di "Wax Worship", intro alla Fugazi ultimo periodo e prosieguo blues iperstordente, e i 13 min. della title track, gorgo magmatico fra primi Sleep, e Dead Meadow. Ad impreziosire il tutto, due ballate atipiche, "Aestival" e "Seminal Shining", che spezzano il clima fra il bucolico e il paranoico che pervade l'album.

A riprova di quanto detto sopra, forse anche alla Thrill Jockey hanno avuto le mie stesse funeste previsioni per il destino del supporto musicale, visto che il packaging è una riproduzione in miniatura di un vinile (non una delle riedizioni simil vinile di vecchi dischi) con tanto di porta disco in plastica. Insomma, una volta tanto forma e sostanza.

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