Undici anni... sembrano un'eternità, ma è il tempo che ci hanno messo i Portishead per registrare il sequel di quell'album che portò lo stesso nome della band come titolo e che sembrava un'apocalisse dark: suoni sepolcrali, ritmi ancestrali e penetranti e l'immancabile voce di Beth Gibbons, sempre profonda e talvolta dal taglio jazzy.

Il terzo, attesissimo, lavoro segue quello schema, perfezionandolo: basta l'iniziale "Silence" per descrivere l'album: un pezzo di bellezza assoluta, sofferto e dal finale di elettronica schizzata che scoppietta su ritmo quasi jazz, Beth sospira e infiamma. Segue "Hunter", ancora più sorprendente, una ballata emozionante e commuovente. "Nylon Smile": altro capolavoro, spettrale, la Gibbons sussurra degli angelici/demoniaci "ooooh....oooooh" e inquieta ammaliando, quindi "The Rip", un incubo digitale con il finale di un lamentuoso synth elettrico che è un vero colpo di genio, che sfocia in "Plastic", la "Roads" del nuovo millennio, una canzone semplice e complessa in simultanea, caratterizzata da un ritmo spezzato del più classico trip hop, con anche picchi di chitarra elettrica. Affascinante. E che dire di "We Carry On"? Una sensazionale marcia elettrica inquietante con Beth che distrugge il cuore. "Deep Water", breve scheggia di prewar folk anni '40 con la Gibbons che si destreggia in una performance splendida su chitarra acustica, mentre delle inquietanti voci eccheggiano ripetendo alcune parti di testo.

"Machine Gun", sorretta da beats pesanti che ricordano "Hunter" di Bjork è un nuovo esempio di creatività ed originalità con lamento elettronico finale che si rifà sempre su un altro pezzo dell'artista islandese ("Verandi"). Quindi "Small", apice del disco: intro acustica con Beth che mette i brividi, mentre entrano in scena un organo ancestrale e una ritmica scheletrica, che lasceranno spazio ad una chitarra impazzita. "Magic Doors", episodio minore del disco, che pare una b-side di "Dummy", introdotta da un beeep, per poi essere devoluta in una base del più classico trip hop anni '90. Non un brutto pezzo, ma puro autocitazionismo. Chiude un pezzo struggente, destinato a diventare uno dei migliori pezzi del gruppo bristoliano: "Threads", drum machine che picchia e uno spettacolare finale in cui la cantante urla una frase, che sembra essere "I'm always so sure".

Forse il migliore disco dei Portishead, sicuramente già catalogato come uno dei migliori del 2008... sono passati undici anni, ma ne è valsa la pena.

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