Gli Interpol sono gli zimbelli del terzo millennio! Ma come diavolo hanno fatto a depauperare l'eredità di un lascito importante quale è stato quel “Turn on the Bright Lights” destinato a modificare i connotati degli ultimi dieci anni di musica rock?
Era il 2002 e la band newyorkese esordiva con un album che si rivelerà fondamentale per la storia recente: di lì a poco si sarebbe iniziato a parlare di revival post-punk inteso come genere e sarebbero spuntati ovunque discepoli che avrebbero fatto a gara per raccogliere il testimone di quella che era la capofila di un vero e proprio nuovo movimento. Poi il nulla: una reputazione poco a poco rovinata per via di una sequela imbarazzante di album poco riusciti, mentre nel frattempo i vari Editors, White Lies, National guadagnavano posizioni nel mercato discografico, certamente con un bel po' di furbizia e paraculaggine in più, ma anche con intelligenza tattica e reale ispirazione.
Ma non solo: mentre le band succitate riempiono le arene e riscuotono gli applausi e le grida isteriche di masse oceaniche, nella penombra di piccoli club di periferia crescono e si impongono formazioni giovanissime che di quel post-punk riportato in auge dagli oramai inutili Interpol, riprendono le istanze meno catchy ed orecchiabili, per ripristinare quello che era lo spirito originario di una stagione musicale votata all'espressione di sentimenti di disagio e malessere. Complice, ovviamente, un periodo storico, il nostro, non proprio rassicurante e foriero di rosee prospettive.
Dalla (musicalmente parlando) gloriosa Detroit, che di scenari (de)industrializzati e periferie degradate se ne intende, ecco che approdano al loro secondo album gli oramai leader della scena locale Protomartyr, reduci da un esordio quasi con il botto che era stato quel “No Passion All Technique” di un paio di anni fa. Rispetto ad altri loro colleghi, Joe, Greg, Scott ed Alex preferiscono cogliere nel calderone post-punk le lezioni di act quali Wire, The Fall, Gang of Four, Birthday Party e (perché no?) dei primissimissimi Bad Seeds, sarà perché la voce svogliata e stonata ad arte di Joe Casey ricorda in più di un frangente un giovanissimo e strafattissimo Nick Cave. Un sound nervoso e variegato, quello del quartetto del Michigan, che evita le soluzioni più lineari, per modellare una materia sonica fatta di vuoti e di pieni, un modus operandi che non rinuncia ad impetuose deflagrazioni elettriche come a momenti più squisitamente melodici, un percorso stilistico che fa convivere pacificamente schegge punk senza compromessi e fasi preparatorie fatte di decostruzioni ritmiche, basso roboante ed effetti di chitarra.
Capiamoci: il cagnaccio ringhiante in copertina, da un punto di vista iconografico, e il puro dato statistico delle quattordici canzoni per appena trentaquattro minuti sono eloquenti nel palesare l'urgenza di un sound che non ama molto indugiare nella soluzione ricercata. Eppure “Under Color of Official Right” non ti lascia con le orecchie doloranti e l'impressione che quattro scapestrati abbiano semplicemente sfogato la loro rabbia. L'opener “Maidenhead”, per esempio, è quasi una ballad (esplosione centrale permettendo) ed è Interpol allo stato puro. E se la successiva “Aint so Simple” mette in chiaro subito le cose, mostrando i denti ed una maggiore velocità di esecuzione, è dalla quinta traccia in poi che l'album inizia ad ingranare veramente. Emblematico il poker costituito da “Pagans” (poco più di un minuto di punk che si eleva ad inno generazionale) - “What the Wall Said” (trascinante nel commovente finale quasi “ramonesco”) - “Tarpeian Rock” (forte di un bel groove che la rende addirittura ballabile) - “Bad Advice” (primo esempio di un sound più ossessivo e paranoico, ricco di secchi controtempi, delay di chitarra ed una prestazione vocale più teatrale e declamatoria: tutti elementi che troveranno maggiore spazio crescente nella seconda metà del platter).
…una seconda manciata di pezzi che brilla grazie ad episodi decisamente riusciti come “Scum, Rise!” (dove Casey si fa pericolosamente simile a Cave, tanto che il tutto finisce per evocare niente meno che i Grinderman più in palla), “I Stare at Floors” (noise e tribale a tratti, epica e melodica in altri) e “Come & See”(il cui incipit non avrebbe sfigurato in un album degli Arcade Fire!). I brani scorrono che è una bellezza, aiutati da una produzione calda e potente, dal basso minutaggio e da quell'immediatezza/freschezza che va a compensare una preparazione tecnica assai lacunosa anche per gli standard del genere (in particolare andrebbe redarguita la sezione ritmica, a momenti un po' spompatella).
Risposta americana all'Europa incazzata e nichilista degnamente rappresentata da act quali Iceage ed Eagulls, i Protomartyr, come le band appena citate, sono forse l'ennesima meteora di questi tempi inconsistenti (un “quattro palle” di oggi presto si convertirà ad un “tre palle” di domani, ne sono sicuro), ma proprio perché la fase storica che viviamo corre forsennata, non lasciando molto spazio alla meditazione ed allo sviluppo artistico delle nuove leve, vale la pena cogliere al volo gli sforzi di queste baldi giovini in quello che probabilmente è il loro momento di massimo splendore.
Era il 2002 e la band newyorkese esordiva con un album che si rivelerà fondamentale per la storia recente: di lì a poco si sarebbe iniziato a parlare di revival post-punk inteso come genere e sarebbero spuntati ovunque discepoli che avrebbero fatto a gara per raccogliere il testimone di quella che era la capofila di un vero e proprio nuovo movimento. Poi il nulla: una reputazione poco a poco rovinata per via di una sequela imbarazzante di album poco riusciti, mentre nel frattempo i vari Editors, White Lies, National guadagnavano posizioni nel mercato discografico, certamente con un bel po' di furbizia e paraculaggine in più, ma anche con intelligenza tattica e reale ispirazione.
Ma non solo: mentre le band succitate riempiono le arene e riscuotono gli applausi e le grida isteriche di masse oceaniche, nella penombra di piccoli club di periferia crescono e si impongono formazioni giovanissime che di quel post-punk riportato in auge dagli oramai inutili Interpol, riprendono le istanze meno catchy ed orecchiabili, per ripristinare quello che era lo spirito originario di una stagione musicale votata all'espressione di sentimenti di disagio e malessere. Complice, ovviamente, un periodo storico, il nostro, non proprio rassicurante e foriero di rosee prospettive.
Dalla (musicalmente parlando) gloriosa Detroit, che di scenari (de)industrializzati e periferie degradate se ne intende, ecco che approdano al loro secondo album gli oramai leader della scena locale Protomartyr, reduci da un esordio quasi con il botto che era stato quel “No Passion All Technique” di un paio di anni fa. Rispetto ad altri loro colleghi, Joe, Greg, Scott ed Alex preferiscono cogliere nel calderone post-punk le lezioni di act quali Wire, The Fall, Gang of Four, Birthday Party e (perché no?) dei primissimissimi Bad Seeds, sarà perché la voce svogliata e stonata ad arte di Joe Casey ricorda in più di un frangente un giovanissimo e strafattissimo Nick Cave. Un sound nervoso e variegato, quello del quartetto del Michigan, che evita le soluzioni più lineari, per modellare una materia sonica fatta di vuoti e di pieni, un modus operandi che non rinuncia ad impetuose deflagrazioni elettriche come a momenti più squisitamente melodici, un percorso stilistico che fa convivere pacificamente schegge punk senza compromessi e fasi preparatorie fatte di decostruzioni ritmiche, basso roboante ed effetti di chitarra.
Capiamoci: il cagnaccio ringhiante in copertina, da un punto di vista iconografico, e il puro dato statistico delle quattordici canzoni per appena trentaquattro minuti sono eloquenti nel palesare l'urgenza di un sound che non ama molto indugiare nella soluzione ricercata. Eppure “Under Color of Official Right” non ti lascia con le orecchie doloranti e l'impressione che quattro scapestrati abbiano semplicemente sfogato la loro rabbia. L'opener “Maidenhead”, per esempio, è quasi una ballad (esplosione centrale permettendo) ed è Interpol allo stato puro. E se la successiva “Aint so Simple” mette in chiaro subito le cose, mostrando i denti ed una maggiore velocità di esecuzione, è dalla quinta traccia in poi che l'album inizia ad ingranare veramente. Emblematico il poker costituito da “Pagans” (poco più di un minuto di punk che si eleva ad inno generazionale) - “What the Wall Said” (trascinante nel commovente finale quasi “ramonesco”) - “Tarpeian Rock” (forte di un bel groove che la rende addirittura ballabile) - “Bad Advice” (primo esempio di un sound più ossessivo e paranoico, ricco di secchi controtempi, delay di chitarra ed una prestazione vocale più teatrale e declamatoria: tutti elementi che troveranno maggiore spazio crescente nella seconda metà del platter).
…una seconda manciata di pezzi che brilla grazie ad episodi decisamente riusciti come “Scum, Rise!” (dove Casey si fa pericolosamente simile a Cave, tanto che il tutto finisce per evocare niente meno che i Grinderman più in palla), “I Stare at Floors” (noise e tribale a tratti, epica e melodica in altri) e “Come & See”(il cui incipit non avrebbe sfigurato in un album degli Arcade Fire!). I brani scorrono che è una bellezza, aiutati da una produzione calda e potente, dal basso minutaggio e da quell'immediatezza/freschezza che va a compensare una preparazione tecnica assai lacunosa anche per gli standard del genere (in particolare andrebbe redarguita la sezione ritmica, a momenti un po' spompatella).
Risposta americana all'Europa incazzata e nichilista degnamente rappresentata da act quali Iceage ed Eagulls, i Protomartyr, come le band appena citate, sono forse l'ennesima meteora di questi tempi inconsistenti (un “quattro palle” di oggi presto si convertirà ad un “tre palle” di domani, ne sono sicuro), ma proprio perché la fase storica che viviamo corre forsennata, non lasciando molto spazio alla meditazione ed allo sviluppo artistico delle nuove leve, vale la pena cogliere al volo gli sforzi di queste baldi giovini in quello che probabilmente è il loro momento di massimo splendore.
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