Può un film grondante pecche affascinarti tanto da diventare uno dei film preferiti della tua (breve) esistenza? Evidentemente sì, visto che La Casa Dalle Finestre Che Ridono ha avuto proprio questo effetto su di me.
Sarà che la pellicola è targata 1976, anno della mia nascita, sarà che ho per Pupi Avati un’adorazione talebana e, per taluni, assolutamente immotivata, sarà perché trovo attraente certo cinema italiano anni ’70, quello che si inserisce, con le dovute differenze, beninteso, nel filone del primo Dario Argento, sarà per la mia intrinseca pazzia… sia come sia mi è bastato vedere il film solo una volta per esserne totalmente incantata.

La trama è piuttosto semplice: il protagonista, restauratore di chiara fama, viene chiamato in un paesello della bassa padana dimenticato da Dio e dagli uomini per restaurare un dipinto appena ritrovato all’interno della chiesa del paese, attribuito a un pittore locale suicidatosi qualche tempo prima e il cui cadavere non è stato mai ritrovato. Circolano strane voci attorno alla figura inquietante dell’artista e il restauratore viene immediatamente preso di mira da telefonate misteriose che gli intimano di andarsene, mentre melliflui personaggi gli gravitano intorno, il paesello si dimostra molto meno accogliente e tranquillo del previsto e i morti iniziano a spuntare come funghi. Il nostro eroe, chiaramente, tenterà di dipanare il mistero legato all’artista suicida e al suo strano rapporto con le due sorelle, rapporto che alcuni vogliono incestuoso, e attraverserà con aria ora spaventata ora disorientata i fatti di sangue che gettano il paese nello scompiglio, coinvolgendosi in amorazzi senza capo né coda con due maestrine elementari locali, una delle quali lo accompagnerà, seppur in modo marginale, durante tutta l’indagine, fino al sorprendente epilogo e al colpo di scena finale.

La trama, come si vede, non eccelle in originalità: l’artista pazzo, il dipinto maledetto, la normalità che nasconde l’orrore sono tematiche sviscerate fino all’osso da cinema e letteratura; molti degli attori, d’altra parte, non brillano per intensità nella loro interpretazione: Lino Capolicchio, l’eroico restauratore, ha quasi sempre un’espressione un po’ immota, raramente rotta da certi sguardi tra lo sconvolto e lo stupefatto ma il più delle volte statica, così come statica appare l’espressione della Maestrina 2, la bella ma tutt’altro che brava, almeno in questo film, Francesca Marciano. Anche i personaggi di contorno, ad esempio i Poliziotti Insulsi, il Sacrestano Strambo, il Prete Svenevole, l’Amico Del Protagonista, che dalla prima scena in cui compare sembra avere appiccicato in fronte un cartello con su scritto “SALVE, IO MUOIO PER PRIMO”, raggiungono standard di recitazione bassetti. I dialoghi non sono proprio brillantissimi, la presenza di molte scene quasi troncate a metà (evidentemente in fase di montaggio ci hanno dato dentro col Barolo) rende quasi comici alcuni momenti che, con tutta probabilità, nella testa del regista volevano essere drammatici, e l’improbabile scena madre, lungi dall’essere spaventosa, fa più che altro sghignazzare lo spettatore.

Descritto così sembra una roba inguardabile, eppure… eppure il film strega. Stregano le atmosfere claustrofobiche, i paesaggi desolati e squallidi della campagna padana, stregano le ambientazioni interne, queste case perennemente in penombra, intrise dei segreti inconfessabili che custodiscono, stregano le facce grottesche, caricaturali degli abitanti del paese, il modo bizzarramente inconsapevole e quasi ilare con cui accolgono tutto quel po’ po’ di morti sospette. Forse proprio qui sta il genio di Pupi Avati, non a caso uno dei più grandi geni del cinema italiano: l’aver reso affascinante un film che girato da qualcun altro risulterebbe una schifezza, girato da lui diventa un cult.

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