Galvanizzati dal graditissimo ritorno di due anni fa, i Pure Reason Revolution si ripresentano ancora una volta con grande entusiasmo ed ispirazione. ”Above Cirrus” presenta ancora una volta una band in gran spolvero, dimostrando che la scelta di tornare dopo un lungo silenzio è stata più che mai azzeccata.

Le caratteristiche non cambiano moltissimo rispetto al precedente “Eupnea”, e sono all’incirca quelle che contraddistinguono il loro marchio di fabbrica. Le chitarre suonano ancora una volta sporche ed abrasive ma con quel retrogusto indie, il basso è anch’esso metallico e rugginoso, i sintetizzatori si alternano fra suoni delicati e vagamente psichedelici, loop possenti e suoni striduli, e anche stavolta si fa a meno di quei veri e propri tappeti tastieristici tipici del genere prog. Insomma i Pure Reason Revolution continuano a rappresentare il lato più rozzo e alternativo del prog, quasi in contrasto con l’approccio più signorile ed elegante della natura più classica del genere. Qualche elemento di differenziazione dal precedente album comunque c’è. Quello che ad esempio si nota è un suono più duro e più cupo, con chitarra e basso che spingono e graffiano un po’ più del solito, con un tocco più cavernoso del solito; in alcuni frangenti si va addirittura in territori Tool, la traccia d’apertura “Our Prism” in particolare sembra un tributo abbastanza spudorato alla band di Keenan e soci, al primo ascolto mi ha ricordato “The Grudge”, ma i nostri si fermano alcuni centimetri prima, non intendono suonare metal e non lo fanno. Un’altra particolarità che mi è saltata all’orecchio è l’inspiegabile assenza di quelle fiammate orchestrali che di tanto in tanto si affacciavano nelle composizioni; non si riesce a capire il vero motivo della loro mancanza, ma si potrebbe ricercare proprio nel sound più spigoloso e nella difficoltà a trovare loro una collocazione.

In ogni caso credo che qui si sia fatto un passo avanti. L’album appare leggermente più vario ed ispirato del precedente. Fra le 7 tracce che lo compongono è possibile trovare qualche elemento di differenziazione in più fra una traccia e l’altra, ogni traccia sembra avere un’identità più propria e non essere esattamente la copia di nessuna delle altre. “Eupnea” aveva un piccolo difetto: c’era una certa disparità fra le tracce più lunghe e quelle più brevi, con le prime ben ricche e sviluppate e le seconde invece un tantino sempliciotte e normali. Qui invece anche le tracce più brevi appaiono ben focalizzate e sviluppate pur nella loro essenzialità, e non serve cercare in quelle più lunghe quello che non si trova in quelle più brevi. Prendiamo ad esempio le due tracce in assoluto più concise, quelle che non arrivano nemmeno ai 4 minuti: “Our Prism” come già anticipato fa il verso ai Tool ma lo fa con tutta la sua forza, il basso metallico e le sferzate prossime all’alternative metal così come il drumming cupo si manifestano nella loro pienezza; stessa cosa succede in “Phantoms”, che richiama fortemente le sonorità del loro secondo e terzo album, dove si punta tutto sull’elettronica, sull’industrial, si va persino sui territori tamarri della techno e della dance ma lo si fa al massimo delle possibilità, mettendoci tutto ciò che serve. Discorso simile si può fare con “Cruel Deliverance”, il suo ritornello fortemente orecchiabile che si stampa subito può trarre in inganno, può farlo sembrare un brano banalotto ma la sua melodia grigia e dimessa, la sua chitarra con quel particolare effetto wah-wah, il suo basso lento e sofferto e quell’intermezzo di organo da chiesa volutamente debole e silenzioso raccontano tutta un’altra storia.

È ovvio comunque che la maggior concentrazione di idee sta nei brani più lunghi, “New Kind of Evil” e “Scream Sideways” sono un perfetto compendio di tutto ciò che i Pure Reason Revolution possono offrire. La prima è lenta e dilatata, con le sembianze di un brano post-rock riflessivo che passa dal momento cullante e perpetuo allo schizzo di rock ed elettronica, la seconda è invece il brano più movimentato e in un certo senso più prog, che spazia dall’elettronica ipnotica e ripetitiva alle parti di nuovo in stile Tool, dai fraseggi quasi in stile fusion alle parti di piano fino alle sferzate più rock.

Riguardo le restanti due tracce “Dead Butterfly” approfondisce bene sia le parti delicate di piano che quelle elettroniche, “Lucid” è invece quella che ha il dono della sintesi, riesce a concentrare un po’ tutto senza dilungarsi troppo, cosa che spesso può risultare più difficile di quanto non lo sia spandere su molti minuti.

Forse il loro miglior album? Difficile da dirsi ma la band sembra tornata sulle scene con l’ispirazione a mille, come se davvero avesse scelto il momento migliore per farlo, paiono persino più convinti di quanto non lo fossero nel 2006.

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