Se dovessi indicare una delusione di questo 2024 appena concluso indicherei senz’altro i Pure Reason Revolution. So di essere abbastanza controcorrente, dato che ha al momento la media più alta su Progarchives e ho visto diversi post social che lo inseriscono tra le uscite dell’anno, però non mi ha colpito a fondo come i precedenti.
Il combo britannico indie-prog (se così lo si può chiamare) era tornato alla grande nel nuovo decennio dopo aver gettato la spugna una decina di anni prima, quando aveva troncato troppo presto una carriera che si rivelava promettente. Si era riproposto con due dischi che parevano persino più ispirati, evoluti e coraggiosi di quelli con cui ci aveva lasciato, come se il lungo stop avesse fatto solo che bene. “Eupnea” e “Above Cirrus” avevano lasciato su di me un bel segno e mi aspettavo altrettanto.
Ora non so se l’abbandono (forse solo provvisorio) di Chloë Alper abbia giocato un ruolo decisivo, ma “Coming Up to Consciousness” è un disco decisamente spoglio, ridotto all’osso. Non voglio definirlo “essenziale” o “minimalista” perché sono espressioni usate solitamente in senso positivo, servono di solito ad elogiare l’abilità dell’artista/band nell’estrarre il massimo da uno schema di linee sottili, ma qua i Pure Reason Revolution non ci sono riusciti benissimo. Mi verrebbe da definirlo, con connotazione dispregiativa, un disco “manierista”, di maniera, perché si sono limitati al compitino diligente o all’esercizio di stile raffinato.
Linee di chitarra pulite e abbastanza scontate, stesso discorso per le parti di tastiera, il più delle volte pianistiche, hanno voluto puntare su semplicità e melodia ma senza sviluppare a dovere queste caratteristiche; è una semplicità incompiuta, la melodia è spenta, non è brillante, come se non ci fosse. A dire il vero l’aspetto melodico/armonioso non è mai stato il loro punto di forza (pur avendo comunque un tocco melodico), anzi è stato spesso il loro punto debole, non è certo la melodia la principale attrattiva di questo progetto, siamo sempre stati piuttosto lontani dalla magnificenza paesaggistica o fiabesca tipica ad esempio delle band neo-prog; capite che costruire l’impalcatura dell’album proprio sulla melodia non poteva essere la più felice delle scelte.
Invece tutti quegli elementi che creavano quel pacchetto sonoro rude ed efficace sono stati ridotti all’osso o derubricati, così viene a mancare proprio il cardine della loro proposta, proprio ciò che mi aveva catturato nei lavori precedenti. Dove sono finite quelle chitarre abrasive, quei synth striduli e angosciosi, quelle incursioni psichedeliche e ipnotiche, quell’atmosfera a volte cupa, quella sperimentazione lievemente allucinata? È sorprendente poi notare come le cose più interessanti presenti in questo album siano, pensate un po’, i brevi interludi piazzati di tanto in tanto fra un brano e l’altro, e il motivo risiede nel fatto che è proprio in quelle manciate di secondi che quegli elementi, timidamente, si riaffacciano.
Ora mi chiederete… è un disco brutto? No, alla fine si ascolta con una buona dose di piacere, ma ho fatto fatica a capirlo (o forse non l’ho ancora capito?) e solo dopo molti ascolti gli ho preso le misure e l’ho accettato per quel che è, alla fine basta semplicemente farsi cullare e trascinare dai suoi riff senz’altro più morigerati rispetto al passato. Come dico sempre poi la musica brutta o di merda è altra, lo è il reggaeton o la trap, mai il prog, però non va oltre la sufficienza piena, si becca il suo buon 6,5 ma era chiaramente lecito aspettarsi di più, di sicuro è il loro punto più basso. La cosa che mi preoccupa è che la band, rinfrancata dagli ottimi riscontri ottenuti, si senta giustificata a proseguire su questa linea troppo scarna, trasformando in rimpianto le grandi cose fatte in precedenza.
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