I Sabbiaveloce.

Diciamocelo: fossero stati Italiani e avessero optato per un nome del genere, li avremo braccati con i cani.
Ma sono amerigani e allora il monicker, siccome che non ci capiamo un ciufolo, risulta fiko apprescindere un po' come Auanagana Beibe Camon.

Fossero stati Italiani e avessero esordito (ma anche no: dalle nostre parti non c'è l'abitudine a dare spazio a chi ha qualcosa di interessante da dire, menchemeno in musica) nel 1993 con un dei dischi semplicemente più intelligenti e belli di quegl'anni battaglieri, non ce ne saremmo neppure accorti e loro si sarebbero sciolti dopo tre concerti in qualche bettola umida e malfamata.

Ma sono amerigani e lì, forse a causa dell'elevato pil medio pro-capite, i gruppi non solo li fanno esordire ma anche suonare, sostendoli e sdoganandoli alla velocità della luce.Che poi lo si consenta con nonchalanche anche a porci e cani di ogni razza e specie è tutt'un'altra fazenda.

Mi sa che sto divagando.

Torniamo ai Sabbiaveloce.

Dopo aver registrato due soli LP all'inizio dell'ultimo decennio del millennio scorso si sono dati improvvisamente alla macchia facendo perdere le proprie tracc(i)e e diradando con il trascorrere degli anni le speranze di rivederli e risentirli suonare insieme.

A fine 2017, a soli 22 anni dall'ultimo vàgito discografico, rieccoli nuovamente insieme. Chi l'avrebbe mai detto.

Il senso di un disco del genere, considerate le caratteristiche che lo compongono, imporrebbe forse una analisi pluri-dimensionale:
un gruppo che in quegli anni nasce come "reazione", forse anche evoluzione dei precedenti musicali di matrice hardcore dei membri che ne facevano parte e che oggi sostanzialmente riprendono il discorso esattamente dove si era fermato. Quasi cristallizzato.

Non so se si tratti di mancanza di capacità di immaginare un oltre o di una precisa volontà di ritornare sui medesimi passi, sta di fatto che il disco è davvero parecchio riuscito.
Non è improbabile che dica così visto che "Slip" è stato qualitativamente davvero uno spartiacque ed avendo avuto modo di apprezzarlo in diretta non riesco ad immaginare da loro un suono diverso.

Magari ad un adolescente che oggi si affaccia anche con curiosità sul mondo musicale odierno, vivendo necessariamente i suoi tempi, un lavoro del genere dirà presumibilmente poco o nulla: modernariato musicale o poco più.

Temo di star nuovamente divagando.

E allora addentriamoci negli interni di qvesto "Interiors", espulso lo scorso novembre dalla Epitaph di Mr. Brett Gurewitz: il pezzo posto in apertura, "Illuminant", ci illumina immediatamente su quanto sarà pieno e netto il suono d'insieme: gli incroci ritmici di basso e batteria sono precisi, chirurgici, ondivaghi e tumultuosi; la chitarra di Tom Capone è una sonda silente e sottotraccia che quando si impenna urla dolore per tutto il disco.
E poi c'è il cantato di Walter Schreifels: educato, sofferto, empatico. Oserei dire perfetto per il contesto.

Nel lotto c'è qualche pezzo (moderatamente) più agitato degli altri: "Under The Screw" e "Sick Mind" sono i vertici "rumoristi" di un disco che ha quel sapore di indefinito che personalmente adoro e che definirei complessivamente "robustamente riflessivo", qualsiasi cosa vorrà mai dire.

Spesso si ha quasi la sensazione che non vadano da nessuna parte e invece, ascoltandolo con attenzione, ci dicono semplicemente che loro sono qui e ora.
Ed è, in definitiva, l'unica cosa che conta.


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