Scrivere qualcosa di critico e lucido su questo evento richiede di mettere da parte le emozioni, il sensazionalismo, le chiavi di lettura personali e i trionfalismi. È indubbio che siamo di fronte a un concerto di livello molto alto: oltre due ore di show, 25 canzoni, altissima qualità delle esecuzioni, quasi maniacale la cura dei dettagli. Ma con i Radiohead è normale e giusto avere aspettative enormi, per cui ecco alcuni spunti critici.

Una setlist che ha fatto felici molti fan e che oggettivamente la dice lunga sulla qualità e ampiezza del repertorio. Uno che conosce le abitudini della band nel fare le scalette potrebbe però protestare per la scarsa presenza di rarità o brani minori. Certo, Creep sarebbe teoricamente un brano raro in sede live, ma ormai l’effetto sorpresa è svanito. Il tour vero e proprio di A Moon Shaped Pool era quello dello scorso anno, per cui la selezione appare ormai tendente al best of. Una scaletta inattaccabile, d’un livello che davvero poche band possono permettersi. Ma mi aspettavo qualche colpo spiazzante: il nuovo singolo vecchio di vent’anni I Promise, una Climbing up the Walls, che ne so. Invece ho avuto la forte sensazione che il ragionamento sia stato: «Siamo a un festival, in Italia veniamo poco, ci saranno tanti fan superficiali. Facciamo i brani più conosciuti, soprattutto da Ok Computer e In Rainbows che andiamo sul sicuro». E l’impressione è che per un bel po’ non ci torneranno, in Italia. Notoriamente non è una delle loro mete preferite.

Ovviamente qui si sta cercando il pelo nell’uovo, ma mi sembra giusto farlo. Potrei protestare anche per l’esiguo numero di brani estrapolati dall’ultimo disco, ma non me la sento. Perché francamente la resa in sede live non è all’altezza dei brani più spiccatamente rock e senza orchestrazioni. Daydreaming è pazzesca anche dal vivo, ma Desert Island Disk e The Numbers non sono propriamente tra i momenti più alti del concerto. In particolare la seconda soffre l’assenza degli archi. Avrebbe avuto più senso una Present Tense o una True Love Waits, ma non si può pretendere tutto. L’ultimo album è un gioiello di produzione e di lavoro in studio, ma la sua riproposizione dal vivo è decisamente problematica. Per esempio, Burn the Witch secondo me è impresentabile senza orchestra. Bene quindi che l’abbiano depennata.

Al contrario, Ful Stop è una bomba, come diversi altri pezzi più elettronici. E qui una seconda pecca: perché quegli arrangiamenti per Idioteque ed Everything in its right place? Magari per i gusti attuali di Tommaso il beat della prima è troppo rudimentale, ma trasuda anni ’90 e non va cambiato, pena una resa del pezzo di gran lunga inferiore alle sue potenzialità originarie. Quello è un canto sacro che si staglia su musica massimamente mondana e immediata. La seconda, al contrario, da brano spettrale viene trasformata quasi in un inno, calcando la mano sul ritmo e sacrificando in parte l’atmosfera.

Gli arrangiamenti che funzionano meglio sono, manco a dirlo, quelli di Ok Computer e In Rainbows. Perché più organicamente rock, più riproducibili. Quei brani anzi vivono una seconda giovinezza dal vivo. Pezzi che conosco come le mie tasche si sono rivestiti di un fascino nuovo, di un’organicità e di una struttura più ariosa e tridimensionale. Formidabile Airbag, così come Paranoid Android, Arpeggi, Reckoner. Come già evidenziato sul web, i due dischi sono davvero fratelli e godono di arrangiamenti parimenti grandiosi.

Una linea programmatica pare anche quella di fare casino, soprattutto nella prima parte. Si spiegano così le varie Myxomatosis, 15 Steps, Bodysnatchers, anche Airbag se vogliamo. Ma i Radiohead migliori non sono a mio parere quelli casinisti, per cui si sarebbe anche potuto puntare tutto sui brani lenti. Evidentemente l’intenzione è quella di dare un’immagine briosa, rock ed elettronica da festival. Va bene eh, è una scelta.

Ma quando sfoderano le tante ballate gioiello della loro discografia, ci si rende conto che in quello sono dei fuoriclasse, Thom è un maestro e gli altri lo assistono come si deve. All I Need, Pyramid Song, Exit Music, No Surprises, Fake Plastic Trees, Nude: questa è l’essenza musicale dei Radiohead, ciò che li rende grandissimi. Melodie pazzesche, punto. La perfezione è tale che la musica e le parole sembrano scolpite, tanto sono definite, icastiche. Un flusso comunicativo da Thom a ognuno dei 50 mila presenti. Una magia.

La sede live fa giustizia, rivela quali siano davvero le cose più grandi fatte dalla band. E ci si rende conto di quei brani che funzionano su disco soprattutto per costruzione in studio, ma dal vivo si disgregano: Lotus Flower e Bloom non tengono il passo rispetto alle altre, perché sono canzoni cervellotiche, aliene, da sintesi di laboratorio. Le altre no, sono immediate e perfette, sono la sezione aurea del rock. Davanti a tutta quella gente non puoi mollare niente, non puoi giocare ad essere troppo complicato. Le cose potenti e dirette passano, le altre no.

Questo concerto, a parte la gioia personale di sentirli dopo 14 anni che li seguo, mi ha fatto comprendere nuovamente la grandezza dei classici della band e i limiti di altre produzioni (sempre tutto molto relativo), che su disco possono essere più originali, ma hanno una minore vitalità intrinseca. Paranoid Android, brano che non ascolto più da una vita, mi è sembrata una canzone nuova, perché avevo davanti agli occhi sei persone che si divertivano a suonarla, che godevano della sua sapiente costruzione. Ma senza snaturarsi, senza dover seguire un copione troppo angusto, concepito in studio e poi imitato dal vivo. No, quel brano dal vivo si esprime nella sua forma più compiuta. Stessa cosa per diversi altri, ma non per tutti.

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