L'altra sera ero sul terrazzo di una casa, di quelle di periferia, che dava su una strada: sotto, il parcheggio, a destra un cavalcavia che passa a pochi centimetri dalla camera da letto di chi ci vive e ci passa le notti insonni, a sinistra i container della stazione, i binari, i vagoni, il groviglio di ferraglia in partenza ed in arrivo.

E lì, davanti a me, si aprivano l'orizzonte, le quinte della città e del suo centro storico, i profili riconoscibili degli edifici, e, dietro, le colline, poi, più su ancora, con un residuo di neve tardo primaverile,  bianca e incongrua, le montagne, dolci e non severe, lievi come uno scivolare verso la pianura.

Da dentro, la sala una festa di compleanno, facce vecchie che non se ne andranno mai - a condizione che non me ne vada io con loro - e facce nuove con i loro interrogativi, facce che in un modo o nell'altro sono la mia faccia, brave a smascherarmi.

Mentre lo sguardo si perdeva ed i pensieri seguivano il suo percorso, pensavo che sono serate come queste, il cielo con le nuvole su una periferia ed il centro lontano, promessa di bellezza e di tempesta, sapore di pioggia e insalata di riso (senza pianti), sono serate come questa che ti fottono, e ti fanno restare, non ti fanno partire, facendo legare il tuo destino, il tuo futuro, alle città e alle persone.

E mentre pensavo a questo, scoprivo che quasi cinquant'anni fa il mio era il pensiero di Raffaele La Capria, o, meglio, che cinquant'anni dopo - fresco di lettura del suo "Ferito a morte" - mi ritrovo a descrivere la mia vita sulla scia di quanto l'autore napoletano ha pensato e scritto per me ed i suoi lettori, di ieri, di oggi e di domani.

Mi ritrovo, o mi piace ritrovarmi, nella posizione di Massimo de Luca, protagonista ed alter ego dello scrittore in una Napoli di fine anni '40, inizio anni '50 , primi anni '60, in cui il protagonista confonde l'onda dei ricordi in un continuo andare e venire dal passato al presente, descrivendo il tutto da un futuro occulto al lettore, in cui tutte le cose sono già accadute, e mi sento attorniato da tipi umani del tutto simili, al di là delle epoche, degli spazi e delle culture in questo Paese che ama le differenze per non vedersi troppo uguale a se stesso ad ogni latitudine, in ogni luogo.

Piccola e grande borghesia di provincia, quella descritta da La Capria e vissuta da me, e da tutti i suoi lettori, ripiegata nei propri sogni e nelle proprie ambizioni mancate, appagata dai propri ricordi di conquiste di una sera e di dolori di un'estate, di tuffi in acqua alla ricerca di una spigola che fugge come sembra fuggire, tra le dita, l'esistenza del protagonista, chiamato presto ad assumersi le responsabilità della vita adulta, cambiando città e cambiando lavoro, panorami e paesaggi, persone che lo definiscono a tal punto da rendere mortale tanto la partenza, con le sue incertezze, che la sosta, come un abbraccio che non offre né respiro né tenerezza.

Borghesia, questa con le sue abitudini, le sue tappe obbligate, dal gioco d'azzardo al club, al tennis, passando per i pranzi della domenica ed i ricordi dei parenti, le gesta tinte di mito degli avi e della nobiltà decaduta prima ancora di divenire decadente in un rigurgito tardivo d'orgoglio e vanità, riti che diventano il modo per sopravvivere a se stessi ed al tempo, ai mutamenti, avvolgendo quasi il protagonista, finché la necessità, prima ancora che la volontà, non lo obbligano a mutare, senza nemmeno rendersene, a tratti, conto.

Un mutamento vissuto senza una soluzione di continuità, quello descritto dall'autore, alternando i registri linguistici nelle mille voci dei protagonisti del libro che sono poi l'unica voce del ricordo e del protagonista smarrito, un tentativo di ricostruirsi e ridefinirsi che naufraga in un mare che cinge la città di Napoli come un muro, e non come una via di fuga e una possibilità di uscita, e riuscita.

Una vicenda esemplare, una descrizione senza sconti di un fallimento esistenziale che non è solo quello dei mille figli del sud costretti ad emigrare, o compiaciuti di rimanere, ma risulta essere, in chiave universale, il ritratto di una nazione scattato nel momento di massima crescita economica e splendore atteso - i primi anni '60 - presago di tutto quello che sarebbe accaduto poi: andare e tornare, crogiolarsi nel ricordo ed in un presente che risulta il migliore fra i possibili, bearsi del passato glorioso ed isolarsi al contempo da esso tuffandosi in mare fino a farsi esplodere i timpani, per non sentire e farsi avvolgere da un azzurro di bellezza solamente ipotetica.

Un girare inconcludente, apprezzabile per il ritmo della musica e la bellezza della scena.

Mi richiamano dentro per il brindisi e gli auguri di compleanno, preparo la mia faccia migliore per un'allegria stemperata, riservandomi di proporre un giro in centro per l'ultimo gelato della sera. E mentre brindo, mi accorgo che mi hanno fottuto nuovamente: amo questa città e queste persone con tutto l'amore di chi sa di esserne superfluo.

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