Lo-fi... lo-fi... quante volte ho letto questa definizione sui giornali musicali, quante volte mi son detto tra me e me che forse non significa assolutamente niente. Da tempo penso che la proliferazione inconsulta di etichette e classificazioni musicali sia una sorta di masturbazione mentale poco sensata. In questo caso, se ci pensiamo bene lo-fi è oggi un bollino da mettere un po' ovunque, ma con quale significato? La mia impressione è che in questo modo si voglia qualificare un certo artigianato musicale, che a volte ha il vezzo di soffermarsi più sulle forme che sui contenuti. Tuttavia la realizzazione "casalinga" non è detto che debba rappresentare per forza di cose un sinonimo di qualità musicale, né è possibile secondo me elevare il metodo a contenuto. Anzi a volte l'uso del "genere" lo-fi mi dà più l'idea di un certo snobismo, una sorta di medaglia al valore della povertà dei mezzi, come se presupponesse una ricchezza dei risultati per niente scontata.

Tutta questa "entusiasmante" premessa-sfogo potrebbe valere anche per questo gruppo che nel 2006 ha letteralmente prodotto e registrato in casa questo suo disco di esordio recentemente pubblicato in Italia (Talitres - 2007). Un lavoro nel quale la percezione "lo-fi" è presente nei suoni nelle canzoni, negli arrangiamenti e più in generale nello spirito del disco. Ma qual'è il risultato in definitiva? Il primo approccio può dirsi tutto sommato positivo, perché è abbastanza curioso perdersi tra l'instabilità delle atmosfere che strizzano l'occhio a stili differenti dal valzer, al rock, folk, blues, country ecc, costruiti con l'uso di pochi strumenti: chitarre, mandolini, percussioni, fiati e fisarmonica. Ma in verità ascoltando con attenzione si scopre che queste canzoni non hanno nulla di particolamente originale o eclatante, anzi a volte si ha la sensazione di ascoltare una musica concepita come un gigantesco "copia e incolla" distorto di stili affini, che con un po' di fantasia possono essere identificati in nomi come Matt Elliott, Will Oldham o i Neutral Milk Hotel, tutti privati, però, di quella dolorosa forza apocalittica che ne caratterizza fondamentalmente il fascino.

Così la Ralfe Band pesca indifferentemente dalla tradizione folk americana ed europea, non disdegna l'uso di campionatori, si diverte a utilizzare strumenti inconsueti come campanelli, piano giocattolo e campanacci. E il tutto viene svolto attraverso lo spirito scanzonato e apparentemente ingenuo dei suoi artefici (i polistrumentisti inglesi Oly Ralfe, Andrew Mitchell e John Greswell) che in questo taglia e cuci di sonorità si sono certamente divertiti a creare contrasti o accostamenti che invero a volte sembrano improbabili. Viene allora da sorridere ascoltando una voce stile yodel fondersi con chitarre e mandolini ("1500 Years"), ma allo stesso tempo ci si può lievemente infastidire per alcuni coretti ubriachi ("Arrow And Bow") o chiedersi interdetti durante l'ascolto come mai spunti all'improvviso una base elettronica ("Bruno Mindhorn").

In generale si tratta di una musica da strada, randagia, itinerante, affascinante a tratti e povera solo in apparenza, avendo in realtà tante idee mescolate insieme, anche se non sempre lucidamente. L'impressione complessiva ascoltando questo disco stravagante e sghembo è allora che queste note sgangherate disegnino un universo nel quale questi trasognati e semiseri poeti della canzone si e ci prendono un po' in giro, calcando forse un po' troppo i registri musicali con un gusto particolare per il grottesco e l'ironia.

Rimane allora un disco interessante, curioso, strano e straniante da ascoltare con lo stesso spirito con il quale è stato creato, senza dunque il timore di non prestare abbastanza attenzione ad un potenziale capolavoro che, almeno per me, non c'è.

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