Cos’è che contraddistingue un “artista vero” da un prodotto da talent? Di solito il talento... o almeno, in Italia è così, all’estero almeno quello c’è, quindi non è questo il problema. Allora qual è? Che sia la voce? No, anche quella di solito è più che presente. Che siano le canzoni? È vero che spesso e volentieri sono deboli, ma è anche vero che la concorrenza ultimamente non propone granché di meglio. Che sia dunque l’autenticità, quella cosa che permette a un cantante di risultare quantomeno credibile senza far sentire puzza di plastica a ogni nota emessa? Direi proprio di sì, visto e considerato che il principale problema dei concorrenti dei vari “X-Factor” e “The Voice” è proprio l’incapacità di sostenere una carriera al di fuori del programma. Ora, cosa c’entra tutto questo con Rebecca Ferguson? Semplice: lei è l’eccezione che conferma la regola, non tanto per la questione credibilità (alcuni, come Carrie Underwood e Adam Lambert, sono a loro modo riusciti a guadagnarsela), quanto per la genuinità del personaggio e dell’artista in sé.

Rebecca è infatti un po’ la Nathalie britannica: nonostante la provenienza non è artificiosa, non sa di plastica e fin dall’esordio si è imposta con un atteggiamento che di costruito ha ben poco, quasi come se fosse stata presa e messa su un palco così com’è. Lo stesso discorso vale per la sua musica: pur proponendo anche in “Superwoman”, suo terzo sforzo discografico, un soul piuttosto di maniera condito da un po’ di gospel, la Ferguson riesce a confezionare un disco gradevole perché onesto e sentito. Niente di nuovo sotto al sole, d’altronde in Inghilterra il suo è un genere abusatissimo da almeno un decennio, eppure la ragazza riesce a cavarsela più che bene grazie a un gusto compositivo e a delle capacità interpretative ampiamente sopra la media: la scrittura è molto asciutta, diretta, le melodie azzeccate e in tutto l’album non c’è un virtuosismo o un vocalismo che risulti fuori posto. Rebecca canta solo quanto serve a emozionare e ci riesce con un’eleganza e una classe cristallina sia in ballate come “Hold Me” e “I’ll Meet You There”, sia in numeri in stile Motown come “Don’t Want You Back” e la title-track, passando per brani che strizzano l’occhio a sonorità più moderne come “Bones” e “Oceans”.

Arrivati alla fine dell’ascolto si rimane dunque piacevolmente colpiti dal talento di questa ragazza, che magari non ha l’ambizione di diventare la nuova Aretha Franklin, eppure ci si avvicina di più lei che molte altre virtuose della voce a cui sono però affidati pezzi generalmente scadenti (vedi Beyoncé e Jennifer Hudson). Peccato che tutto questo sia in parte penalizzato da una produzione sì raffinata, sì coerente, ma anche un po’ troppo patinata: premesso che stiamo parlando di un album tutt’altro che iper-prodotto, con qualche suono più sporco o anche solo meno laccato il disco nel suo intero ci avrebbe sicuramente guadagnato. Insomma, l’interprete c’è, i pezzi pure, perché mettere artificialità dove non ce n’è bisogno?

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