È un Fossati in stato di grazia quello che nel 1990 ci offre quest'altro saggio di creatività, solo appena un po' appesantito da certi eccessivi e tortuosi intellettualismi letterari, che riguardano in particolare i testi di "Lunario di Settembre" e "Confessioni di Alonso Chisciano", la prima tratta da una sentenza di condanna per stregoneria datata 1647, con linguaggio tra il burocratico e il barocco, adeguato all'epoca, la seconda profonda riflessione psicologica sulle visioni e sui turbamenti di un Don Chisciotte fin troppo cosciente di se stesso. In entrambe queste ambiziose composizioni (parlare di canzoni è un po' riduttivo) la gravità dei testi è più che compensata da splendide musiche, e in particolare "Lunario di Settembre" contiene una parentesi incantevole per pianoforte e voce, sottotitolata "Dialogo fra l'inquisitore e un'imputata".

Si tratta di un disco "dotto" anche al di fuori di questi due episodi: basti pensare all'uso della chitarra tradizionale portoghese ("breguesa") nella suggestiva "Lusitania", che apre l'album con elaborate sequenze ritmiche di batteria e percussioni, e con una galleria di immagini, quasi mai paesaggistiche, ma sempre evocative e capaci di portarci, noi ascoltatori e "piccoli mediocri viaggiatori soli", in riva all'Atlantico, di fronte al mistero dell'ignoto. Tornano anche inediti accostamenti strumentali, come quello tra il dolente suono di un oboe e le cupe ma morbide percussioni africane nella bellissima "Passalento", in assoluto una delle canzoni più ispirate e commoventi dell'intera carriera di Fossati. "Italiani d'Argentina", testo carico di serena rassegnazione più che di nostalgia per la madrepatria, si avvale di un ritmo che rimanda alle milonghe di Paolo Conte, solo un po' più deciso e accelerato, insomma un po' meno jazzeggiante. L'unico brano che si possa definire vicino al rock è "Discanto", in cui le cadenze dure e insistenti si adattano egregiamente al testo, che in pratica è un disincantato elenco delle cose per cui si vive tutti i giorni.

Fossati ormai ha mestiere da vendere, tanto da rendere gradevole un brano come questo, potenzialmente assai monotono, mediante opportuni salti di tonalità, sempre in crescendo, fino alla strofa finale in cui la robusta base ritmica si placa. Piccoli gioiellini posti nel finale sono "Unica rosa", quasi un gioco sulle possibili rime in "osa", dalla melodia dolce e calmante come una tisana, e "Albertina", per pianoforte e voce, breve e intenso ritratto femminile. "Piumetta" è una specie di filastrocca che invoca le figure dei tarocchi, con un bel ritmo sostenuto e la partecipazione di Fiorella Mannoia, cantante prediletta dall'autore, che qui sembra nascondersi e fa in pratica poco più che il controcanto. È forse l'unico momento leggero di un album come si suol dire un po' tosto, ma eccellente.

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