Il Grindcore è un genere che si può tranquillamente dichiarare ormai in via d’estinzione: nato intorno alla metà degli anni ’80 per mano degli intramontabili Napalm Death, rappresenta uno dei generi musicali più estremi in assoluto per la velocità, per la brevità e per la totale assenza di melodia delle canzoni.

L’intento dei suoi inventori era probabilmente quello di unire la denuncia sociale e l’oltranzismo del Punk Hardcore con la violenza e la cupezza del Thrash/Death Metal di gruppi come Sepultura, Testament e Possessed. Il risultato, il Grindcore per l’appunto, è un genere che per sua natura è fracassone e coinvolgente e poco si presta a farsi foriero di un messaggio politico: naturale dunque che i Napalm Death lo abbiano abbandonato in favore del Death, più adatto ai loro scopi e di sicuro meno “evasivo”.

Detto ciò crederete che abbia sbagliato a scrivere artista e titolo dell’album e che mi appresti a recensire qualche cd dell’immensa discografia dei padrini del Grind: invece no, per quella dovrete portare ancora un po’ di pazienza. Dopo la svolta dei Napalm Death, infatti, il Grindcore vero e proprio ha avuto ben pochi proseliti: la maggioranza ha svoltato verso il Gore Grind (la sua variante incentrata su temi Horror e Splatter), chi ne ha fatto un mezzo per la sperimentazione (Naked City), chi l’ha usato per musicare i propri deliri (Pig Destroyer e in generale le ultime generazioni di complessi) e chi infine ha cercato di proseguire quella strada di denuncia di tutto ciò che non (gli) va.

Tra questi si collocano di sicuro i Leng T’che, band belga nata con il nome di "Anal Torture" che ha poi preferito adottare un nome cinese, quello di un rituale di tortura: nonostante questo particolare, questo gruppo non ha assolutamente nulla di Gore. L’Lp in questione è il loro debutto (inciso tra l’altro per “TheSpew”, etichetta italiana) e presenta i canoni classici del lavoro Grind (diciotto pezzi della durata media di un minuto e mezzo). Nonostante questo non sia un genere che richieda molta tecnica, anzi, spesso molti incapaci vi si rifugiano per sopperire a carenze tecniche, i Leng T’Che dimostrano di avere una padronanza strumentale decisamente buona (per quanto non possa competere con altri gruppi del panorama Metal estremo).

Spicca in particolar modo la prova del batterista che delizia l’ascoltatore con una serie di controtempi tutt’altro che semplici. Il lavoro delle chitarre è senza dubbio preciso, ma non regala emozioni in fatto di perizia. Da notare invece l’alternanza dello Screaming nelle parti più veloci e del Growling in quelle più lente, alternanza che non di rado sfocia in duetti veramente esplosivi: entrambe le voci, infatti, sono potenti e non esagerate e rappresentano un ottimo suggello alla proposta del quintetto. Tutte le canzoni, nonostante brevissime, hanno una propria struttura che, per quanto non si possa dire innovativa, le fa distinguere l’una dall’ altra e dimostra un certo impegno in sede di scrittura (che per quanto mi riguarda è un elemento che apprezzo sempre). Di sicuro gioca a favore della band l’ottima produzione, in grado di esaltare ogni suono dotandolo di un impatto mostruoso e veramente “muscolosa”. Ma di certo, anche senza una produzione così adeguata, la musica dei Leng T’ Che rimarrebbe estremamente coinvolgente e decisamente arrabbiata: il riffing e l’incalzare della batteria sono un vero pugno in pieno volto che scatena inequivocabilmente un violento headbanging.

In questo senso si potrebbe dire che il Grindcore è il parossismo del Hard Rock: musica suonata con il solo intento di fare casino. La principale nota di merito di questi ragazzi deve secondo me essere dedicata ai loro testi: i Leng T’Che, per citare Alfieri, hanno “come inimico l’universale”. Non c’è una sola tipologia umana che sia risparmiata da una sassaiola di pesanti quanto taglienti critiche che non di rado trascendono nella mera ignominia: accanto ad una musica estremamente violenta ed estrema, i nostri ci offrono incazzature più che gratuite e liriche oltraggiose verso tutti (dai registi di film horror ai Black metaller), compresi sample sulla fraseologia della parola “Fuck”. Il quintetto si configura quindi come una band a metà strada tra il demenziale e l’impegnato, alla quale però, rispetto a tante altre, bisogna riconoscere alcune cose, prima tra tutte il buon gusto (assenza dei soliti abusati temi Gore) e la scelta di una critica cieca a tutto ciò che eccede per affettazione.

In secondo luogo, la loro proposta musicale è piacevole (si parla di Grind, non fraintendete) e non troppo impegnativa ma contemporaneamente ben confezionata e non abborracciata. In terzo luogo, forse il pregio più grande del complesso, contribuiscono a mantenere florida e degna di un ascolto una scena musicale che, come specificato in molte altre recensioni, sta andando veramente allo sbando. Il sound, fortemente influenzato dal Punk, incontra in “Death By A Thousand Cuts” un certo gusto rockeggiante che rende il disco, passatemi il termine, abbastanza “leggero” e assimilabile. Niente atmosfere irrespirabili, quindi, solo voglia di fare polemica per il gusto di farlo e voglia di spaccarsi i timpani con una sana dose di musica pesante.

Un album che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati di Metal estremo ma anche a chi cerchi un prodotto ben suonato e ben composto che però non richieda una grande concentrazione emotiva. Scanzonati, potenti e ferini.

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