Nel 2003, quando credevo che l'esistere dipendesse da un jeans strappato con precisione chirurgica, volto ed intento ad attirare l'attenzione verso i miei stessi confronti, ripudiavo tutto ciò che non avesse a che fare con un cono valvolare (massimo... 2) e quattro birre scadute, posate al di sopra della cassa, in attesa dei fremiti partoriti dall'aggeggio in questione, che poco capivo avrebbe avuto a che fare con il mio limitato futuro di apprendista venditore di enterogermina o lacca per capelli in via di calvizie.

Il fatto è che quando varchi una determinata soglia di interesse nei confronti della "musica", la massificazione comunicativa inveisce affinchè tu possa riuscire a trovare quello che è il sound "che meglio ti calza addosso". Ed è qui che (se effettivamente esiste) risiede il trucco. Ritenere che i Pankow volessero o pretendessero che io, o chi per me, pensassi che loro pensassero che io pensassi che loro fossero tedeschi al 100%, non ha significato alcuno. Il mesto torpiloquio che mi accingo a recitarvi può solo avvicinarsi a quello che in molti vorrebero leggere in questa sede, ovvero una recensione. Eccomi allora: questo album è l'esatta voce della castrazione. Voce cuore e alito, in ogni barlume, in sadicità figlie di un padre metropolitano notturno, che prende forma in ognuno dei distretti industriali di questo globo, al calare di un sole estremamente trepidante per tale attesa.

Scariche di elettricità stagno-cromatica, percorrono a quantità industriale super-strade di vuoto sociale, pratica sterile di quel che in molti nominano come "discorrere". Da queste parti tira aria oscena, possibilmente sottoposta a marcia volutamente induttiva e indirizzante verso opinionismi cibernetici, estremamente cenciosi, indistintamente acidi. Si rimane interdetti, davvero, quando si apprende che il suddetto album appartiene al 1997, annata che ha visto sfornare flop techno-filo-nine inch nailsiani, cosa che riesce difficile da credere sottoponendo timpano incudine e martelletto all'ascolto. I Pankow (italianissimi per 3/4), sono l'incarnazione di quello che in pochi sarebbero in grado di invertarsi nel poter catalogare: ordinati e filo-metrici quanto i Kraftwerk, di cui rappresentano un deviato seguace, romanticamente acidi ed abrasivi nel saper corrodere quel poco che di melodico dei sopra citati Kraftwerk si può intrasentire nelle loro composizioni, e per finire, così decadenti, così maledettamente anticonformisti, anche nella sola modalità di produzione.

Uno specchio, due, tre in frantumi di zinco spietatamente ossidato da vocalità fendenti nella loro profonda e baritonale limpidità. Fiamme ossidriche di indefinibile taratura somiglianti sempre più a sinthesizer che ad altro, riusciranno credo, nell'impresa di opporvi allo stesso scopo per cui ogni qual volta si è impettiti nell'ascolto, ci si ritrova sistematicamente a piangere, per nostalgia di un qualcosa che più non è. Lasciando alle spalle Trent Reznor, relativi figli e/o amanti, fermatevi: se avete modo, vi prego, fatelo, almeno per rispetto verso a quel poco di buono che band come questa ha saputo testimoniare con passione, auto-critica e lungimiranza tra tutte, fermatevi davvero. Ascoltate, "inoculate" quello che Afterhours e Verdena vorrebbero riuscire a fare nelle loro registrazioni, e che ricercano senza mezzi termini all'estero, svendendosi in inglese, senza provarne nemmeno un principio di erezione, oltrechè un risultato.

Se dobbiamo qualcosa a coloro che hanno osato oltrepassare la gelidità dell'industrial europeo, ancor di più ad infettare la fievole scena italiana, anche rispetto all'europa stessa, tra questi i Pankow meritano lodevoli intercessioni. Siate clementi, se vi è possibile, fatevene un parere, specialmente a riguardo di quest'album.

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