Premessa assolutamente necessaria

Tu che sei un_ maniac_ cinofil_ debaseriot_ avrai visto e ricorderai fotogramma per fotogramma «A qualcuno piace caldo».

Riempiti gli spazietti alla bisogna e per farla breve, ad un certo punto ci sta Tony Curtis in spiaggia sotto l'ombrellone, travestito da Junior Shell, erede unico dell'impero benzinaro, e fa lo sgambetto a Marilyn Monroe, giusto per attaccare bottone e, tra una cosa e l'altra, lei gli dice che suona l'ukulele in un'orchestrina di jazz, ma jazz di quello caldo eh, e lui le fa che, sì, a qualcuno piace caldo, da cui il titolo del filmone.

Per far vedere che ne so tanto e spargere badili di cultura a destra e a manca, qui lo scrivo e qui lo nego che il jazz caldo è quello suonato da minuscole formazioni negli anni Venti e nessuno sa se è caldo perché Louis Armstrong una via l'altra mette in piedi due formazioni, gli Hot Five e gli Hot Seven, che sono la Storia con la esse maiuscola, oppure se, viceversa, qualcuno si inventa questa cosa del jazz caldo e Louis prende la palla al balzo.

Fatto sta che ...

A qualcuno piace caldo

Alfred Lion e Franck Wolff, per dire, sono due di quelli a cui il jazz piace caldo, sono tutti e due berlinesi e non si sa come fanno a sentire quella musica che suona dall'altra parte del mondo, che nella fattispecie è New York.

Com'è, come non è, dopo essersi fatti diecimila storie sul trovarsi faccia a faccia con quei bellimbusti che suonano quella musica da sballo, fatto sta che si impegnano anche la camicia e si imbarcano sul transatlantico e sbarcano a New York, dov'è l'azione, perché quel jazz caldo per loro due è una sirena irresistibile.

Solo che quando arrivano a destinazione la temperatura è un po' più freddina e più che musica da sballo si trovano alle prese con musica da ballo.

E cioè lo swing e le big band.

E a loro due, che si sono bevuti leghe e leghe di oceani per colpa del jazz caldo, questa cosa non gli sta granché bene.

E decidono di fare a modo loro, e allora 'fanculo Glenn Miller, Sidney Bechet tutta la vita, e se Sidney Bechet 'sti bifolchi se lo sono dimenticati in fretta, ci pensiamo noi a rimetterlo in sesto, i dischi glieli facciamo fare noi, cazzo ci vuole, mettiamo su una casa discografica, siamo o non siamo nella Terra delle Opportunità?

Detto fatto, ecco qua …

La Blue Note

Questa la conoscono tutti, ma proprio tutti, anche quelli che il jazz nemmeno sanno come si scrive, è come la pubblicità di tanti anni fa, che dove c'è Barilla c'è casa e magari la pasta ti fa pure schifo in genere, e pari pari dove c'è Blue Note c'è gezz, lo sai pure tu che hai il santino di Elettra Lamborghini sul comodino.

Quei tanti che non hanno la più pallida idea di che roba sono Impulse, Prestige, Riverside, la Blue Note almeno l'hanno sentita nominare, è garantito.

Insomma, questi due mangiacrauti si inventano dal nulla, dall'oggi al domani, la casa discografica statunitense simbolo della musica statunitense.

E questo suona strano, ma nella storia della Blue Note di cose che suonano strane ce ne stanno tante, tipo …

Davis e Coltrane

Qui le cose cominciano a farsi un pochino più difficili e mi sa che tu, col santino di Elettra sul comodino, se non fai attenzione adesso ti perdi per strada.

Allora, i due jazzisti più famosi al mondo, ignorante che non sei altro?

Miles Davis e John Coltrane, ovvio.

E l'abum più famoso di costoro, ignoranti che sei e sarai sempre?

«Kind of Blue» e «A Love Supreme», banale.

E come si spiega che sia «Kind of Blue» che «A Love Supreme» non sono marchiati a fuoco dalla Blue Note?

E come si spiega, ancora, che la cosa più rilevante di Davis a casa Blue Note è la comparsata in «Somethin' Else» di Julian “Cannonball” Adderley?

E come si spiega, uffa, che Coltrane suona «Blue Trane» e poi se ne va?

Non si spiega, oppure sì, si spiega eccome, anche se quello di Elettra è proprio qui che si perde, e allora lo saluto e tiro dritto per la mia strada.

Prima Davis.

Che a un certo punto si mette in testa di rivoluzionare la musica e si inventa il jazz modale – scritto per inciso «Kind of Blue» è la Bibbia del jazz modale, altra cultura sparsa a caso. Ora, io sono la somma dell'ignoranza in fatto di tecnica musicale e mi fermo ai power chords, e allora è scontato che cosa è il jazz modale non ne ho la benché minima idea, anche se poi «Kind of Blue» mi piace molto. Lion e Wolff invece lo sanno cosa è il jazz modale ma non gliene può fregare di meno, perché quel jazz modale è bello e li lascia di stucco ma è pure troppo distante dal jazz caldo che li ha trascinati a New York e dalla missione della Blue Note. Per cui, amichevolmente, 'fanculo pure a Davis, che se ne va alla Columbia. E qui qualcuno obbietta che, vabbè, Davis si accasa presso una multinazionale e la Blue Note col cavolo che ha la minima speranza di marchiare «Kind of Blue» e allora 'fanculo a Davis solo perché non te lo puoi permettere, la storia della volpe e dell'uva, per farla semplice e così magari recupero pure il fanatico di Elettra; io però la penso al contrario, che alla Blue Note quell'album non lo avrebbero registrato neppure se Davis li avesse implorati strisciando ai loro piedi. Perché la Blue Note ha una missione e Davis non è un missionario dei loro.

Poi Coltrane.

Che pure lui a un certo punto si mette in testa di rivoluzionare la musica e ci butta dentro religione, spirito e tanta di quella roba ultraterrena e arriva a fare «A Love Supreme». Qui il discorso multinazionale vs. indipendente non vale, l'album esce per la Impulse che con la Blue Note se la gioca ad armi pari. È solo che a Lion e Wolff quella musica non piace, non fa per loro, non ho letto nessun virgolettato in cui lo affermano, ma ci metto la mano sul fuoco che è così, sono due che vanno alle sedute, si mettono in un angolo e se la musica suonata gli piace iniziano a battere il piede a tempo, poi si mettono e ciondolare la testa e alla fine saltano su a ballare e quella musica – solo quella musica che gli fa quell'effetto – finisce su un disco Blue Note. Per questo «A Love Supreme» è Impulse e «Blue Trane» è Blue Note, tutto qua, è solo una cosa normale.

Non è normale, invece, che alla Blue Note a un certo punto arrivano ad incidere ...

Ornette Coleman, Cecil Taylor e quella robba assurda che è il free jazz

Perchè se il jazz modale di Davis e le ascensioni spirituali di Coltrane non sono cosa da Blue Note, allora quando la Blue Note socchiude le porte al free jazz, allora capisci che è finita.

Per dire, «Conquistador» di Taylor è del 1966, Lion abbandona la Blue Note e si ritira a vita privata l'anno successivo, Wolff rimane da solo a tirare la carretta fino alla morte, nel 1971.

Che è finita lo capisci anche da altre avvisaglie, però, tipo che sempre nel 1966 la Blue Note rinuncia alla propria indipendenza e si vende alla multinazionale Liberty, sparisce dal logo la fiera rivendicazione d'intenti «The finest in jazz since 1939» a favore di un anonimo, burocratico e deprimente «A division of Liberty Records Inc.».

E la cosa strana, ma strana veramente – vi avevo avvisati fin dal principio che ce ne sono tante di stranezze – sai qual è?

Che in fondo la Blue Note finisce quando agguanta in rapidissima sequenza il primo ed il secondo successo clamoroso in termini di vendite, che poi sono anche gli unici due, «The Sidewinder» e «Song for My Father», ad opera di questi due tizi qua …

Lee Morgan, Horace Silver (e la famiglia Blue Note)

Hai presente quelle classifiche da poco che di tanto in tanto spuntano fuori da quelle riviste che pretendono di raccontarti una storia in pochi tratti, tipo «I 100 dischi fondamentali per capire il jazz»? Se ne hai lette, ci hai trovato mai traccia di Morgan e Silver? E se non te lo ricordi, rispondo io in tua vece: no. No, perché quel successo non se lo spiegano neppure alla Blue Note, non si capacitano di come possono avere successo, in piena epoca free jazz, due reduci dell'hard-bop.

E quel successo inizia a macerare la Blue Note, ed è l'avvento della Liberty, l'apertura al free jazz, l'abbandono di Lion e la morte di Wolff, e addio Blue Note.

Però dopo tante stranezze, almeno una qualche considerazione bella ci sta.

Ed è che il successo arride a Morgan e Silver, due colonne della Blue Note, due che fanno musica ancorata alla tradizione e l'ancora non la mollano nemmeno quando è conveniente abbandonarsi alla corrente, e di gente di questa pasta è fatta la Blue Note, io mi limito a dire pure Ike Quebec e Jimmy Smith, Rudy Van Gelder e Reid Miles, Art Blakey e Lou Donaldson, tutta gente che sta alla Blue Note non perché la Blue Note gli da da lavorare ma perché della Blue Note condivide la missione, l'etica per usare una parola grossa, che alla fine altro non è che …

Jazz with feeling, soulfulness and groove

E questo nemmeno lo traduco, lo dicono Lion e Wolff e con parole semplici vuol dire che ascolti la musica, batti il piede, ciondoli la testa e poi ti alzi e ti metti a ballare e basta così perché, come ho scritto poco su, non mi piacciono i tentativi di raccontare una storia in poche parole, anche se ci sono caduto spesso, e per una storia coi fiocchi ti rimando a …

«Blue Note Records. La biohgrafia.» di Richard Cook

Che è un libro molto bello, se non altro perché inizia così: «Le aziende non hanno una loro mistica, le etichette discografiche sì: emana dalle copertine, dalle fodere interne, dagli spessi dischi in vinile e dalla musica che viene fuori quando li fai girare sotto una puntina.» e vuol dire tanto per chi se la sente.

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