Dopo le scelte narrative radicali di Boyhood, Linklater torna a un cinema più tradizionale, che però non viene meno ad alcune prerogative forti che erano arrivate alle loro estreme conseguenze con il film precedente. Un cinema naturalistico, che tenta di eliminare ogni possibile diaframma tra forma artistica e vita. Ovviamente, in questo caso la struttura diegetica non è spiazzante e radicale quanto quella di Boyhood, ci sono delle linee di tendenza, c’è una selezione nel materiale narrativo. Ma nemmeno così tanto: Linklater riesce a narrare una vicenda, una questione circostanziata, ma la immerge in un fiume dove tutto scorre, con grande naturalezza, e trascina nella corrente tanto materiale, non sempre essenziale. Ed è un grande valore per un film come questo, dove il narrare non viene costretto da necessità di trama troppo stringenti, quasi soffocanti. C’è uno scenario corale raccontato con rara maestria, senza taglia e cuci troppo artificiosi e posticci; ciò nondimeno, si giunge alla fine ad un costrutto, ad un focus sensato, a una riflessione specifica.
Il tema superficiale è quello della fase di transizione tra high school e college, ma più in profondità si trova un bel ragionamento sull’identità e sul seguire più o meno le correnti. Il maturare passa necessariamente dal nuotare un poco in direzione contraria; questo può essere più o meno traumatico. Il gruppo sa essere feroce, sa mettere all’angolo il singolo (Bufalo), ma non è una regola fissa e chi prende strade diverse da quelle più prevedibili non viene necessariamente ostracizzato (Jake). La lettura di Linklater non scade quindi in facili schematismi; il suo è un affresco ricco, che non va in una direzione unica, non vuole postulare una tesi. Si osserva una fase della vita di tutti, o comunque di molti, con le sue asperità e le sue gioie, le sue felicità e le sue contraddizioni, e si suggerisce una chiave di lettura, una cartina tornasole per approfondire la riflessione su quanto visto.
L’ulteriore qualità del film è data dal fatto che questa riflessione non intacca mai (o quasi mai) l’ordito filmico, incentrato su elementi di puro divertimento, altamente godibili, senza quasi mai sosta a livello ritmico. Dietro a una facciata che potrebbe apparire quindi frivola, si sviluppano le analisi implicite di Linklater. Ma il tutto è godibilissimo anche nella sua esteriorità più pruriginosa e facile. Tutti vogliono qualcosa funziona anche come film sul collage di puro intrattenimento, perché gode di una scrittura felicissima, altamente aderente alla realtà, e presenta davvero molti spunti interessanti in sé: dalla musica, alle infinite gag e battute, ai giochi vari tra gli studenti, i personaggi ritratti magistralmente, le loro stramberie, la struttura temporale impostata su un conto alla rovescia (le ultime 72 ore prima delle lezioni). Insomma, un vero ben di dio narrativo.
Due parole vanno spese per elogiare la capacità di costruzione dei personaggi. Anche verso la fine del film sono pochi i nomi che si ricordano, ma ogni studente è perfettamente caratterizzato, con quei due o tre elementi a testa che sono sufficienti a dare vividezza al gruppo di amici. In questo senso la gestione della sceneggiatura è davvero chirurgica: c’è spazio un po’ per tutti, prima o poi. L’introduzione dei vari ragazzi non è tutta polarizzata ad inizio film, ma viene sgranata bene in momenti diversi, in modo da garantire una perfetta assimilazione da parte dello spettatore. In questo modo, dopo le due ore scarse di film, sembra quasi di conoscere veramente i vari mascalzoncelli che formano la squadra di baseball al centro della vicenda. Concorre certamente anche un casting pregevole: il bravo ragazzo protagonista, il malizioso fissato col sesso ma amico leale, il cavallo pazzo eccessivamente agonistico, quello con la scorza dura ma in fondo buono, il fattone che si finge giovane e così via. I tipi umani sono perfettamente impersonati dai vari attori, molti dei quali non sono ancora particolarmente noti. Zoey Deutch potrebbe essere in rampa di lancio.
La musica, oltre ad essere un sottofondo quasi ininterrotto, viene utilizzata in modo interessante per individuare i vari ambienti che i protagonisti frequentano a fasi alterne, sempre alla ricerca di donzelle. C’è il locale disco, quello country, o ancora quello punk. In questo senso, la scelta dell’anno 1980 si rivela decisiva nell'individuare un momento storico di passaggio, uno snodo storico-musicale-culturale, che è poi un rimando al momento vissuto dai ragazzi. Come si sfrangiano i generi musicali, gli ambienti, gli stili di vita della società, così l'unità iniziale del gruppo si divaricherà ben presto in percorsi magari anche antitetici. Dal punto di vista della ricostruzione storica, il lavoro sui costumi è splendido e decisivo.
Sempre a livello cronologico, funziona bene anche la scansione della vicenda in un arco di tempo limitato ai tre giorni prima dell’inizio delle lezioni (richiamo a Dazed and Confused, che si svolgeva in 24 ore); i fatti assumono una connotazione più intensa perché rappresentano una sorta di canto del cigno prima dell’inizio delle fatiche accademiche e, metaforicamente, dell'età adulta. In questo arco di tempo limitato si giocano molte questioni preliminari, che forse poi si cristallizzeranno. Siamo sulla soglia dell’età adulta, le scelte fatte potrebbero assumere una particolare importanza. Ma anche qui, Linklater non ne è certo: prevale la vocazione descrittiva su quella precettiva. Ognuno fa un po’ quello che vuole, c’è quello che mette la testa a posto e quello che al contrario potrebbe cedere alle tentazioni.
7.5/10
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