Elektra: un mito, una tragedia, un'opera, un nomen omen: quant'è bello lasciarsi strapazzare dalle continue, potentissime scariche elettrico-emotive di questa sublime mostruosità, primo frutto della collaborazione tra il genio musicale di Richard Strauss e quello letterario di Hugo Von Hofmannstahl. Dopo aver scandalizzato (ed estasiato) il mondo con Salome, con Elektra Strauss concentra la sua inventiva provocatoria sulla proposta musicale più che sul contenuto letterario, con il risultato di portare tutto quanto all'esasperazione: voci, orchestra, emozioni. Anche se il mio spirito rimane più vicino a Salome, questa sua "gemella oscura" è un'opera tremendamente bella, adrenalinica come nessun altra, capace di stimolare sensi e pensieri con intensità orgiastica.

Tra i tanti meriti di Elektra c'è anche quello di aver rivitalizzato, dopo svariati decenni in sordina, il connubio tra opera e mitologia classica, che da qui in avanti per Strauss rappresenterà una cornucopia da cui attingere a piene mani (Ariadne auf Naxos, die Agyptische Helena, Daphne, die Liebe der Danae); e dopotutto cosa c'è di più universale e di più affascinante dei miti ellenici per esprimere concetti e simbologie validi per qualsiasi epoca e chiave di lettura? Nel caso specifico, Elektra è un pessimistico, doloroso ma veritiero paradigma della condizione umana, ed in questo è completamente opposta a Salome, che regna con divino splendore sulla sua vicenda. Elettra invece è una spettatrice; Agamennone viene assassinato, Clitemnestra ed Egisto la riducono alla miseria, Oreste ritorna e mette in atto la sua vendetta, ma tutto questo avviene indipendentemente dalla sua volontà. Lei non può far altro che assistere, consumandosi nella violenza delle sue emozioni, ed è proprio questa impotenza a renderla un personaggio così credibile e così profondamente tragico.

Sarebbe sbagliato ridurre un'opera complessa e stratificata come Elektra ad un unico, continuato assalto sonoro al calor bianco, ma almeno inizialmente, l'impressione potrebbe essere quella, e comunque quei pieni orchestrali con tube e tromboni lanciati a piena potenza sono così tellurici e divini che è praticamente inevitabile che spesso vadano a fare ombra a tutto il resto. E tra l'altro vanno a creare un "piccolo problema": servono voci in grado di reggere il confronto con un simile dispiego strumentale, soprattutto per il ruolo della protagonista per cui, oltre alle solite doti drammatiche ed interpretative, più che mai indispensabili per far risaltare tutta la ridda di violente emozioni che caratterizza Elettra, servono una voce da peso supermassimo e corde vocali in titanio, forgiate da anni di repertorio wagneriano, verdiano pesante et similia: in pratica è l'identikit di Birgit Nilsson, somma interprete di questo ruolo tanto affascinante quanto impervio, senza dubbio la parte per soprano più difficile ed esosa del repertorio operistico standard.

Eppure nel momento clou la protagonista è Clitemnestra: il tema dei talismani magici, un breve accavallamento di note e di strumenti dalle tonalità gravi e acute che sentito una volta lo si ricorda per tutta la vita, che dà il via ad un monologo allucinato, straniante, tra gli assoluti vertici del repertorio straussiano, in cui l'anima lacerata dell'anziana regina di Micene si riversa direttamente nell'inconscio dell'ascoltatore. A proposito di questo monologo, esiste un opera-film del 1981 in cui Clitemnestra è interpretata da Astrid Varnay, all'epoca ultrasessantenne, che dopo una carriera a suon di Brunhilde, Isolde, Senta, la stessa Elettra e altri ruoli simili si presentà così, con questa voce e questa recitazione; molto semplicemente, non esistono parole adeguate per descrivere una simile meraviglia. Non che Leonie Rysanek (Elettra nello stesso film) sia da meno in quella replica ululata rabbiosamente, carica di vetriolo, di odio represso e finalmente sfogato, anzi, direi che in questa scena risulta addirittura più efficace della stessa Nilsson nel trasmettere con la giusta dose di violenza lo stato d'animo della nostra tragica antieroina.

Ascoltandola più approfonditamente, Elektra risulta un'opera un po' più tradizionale di come potrebbe inizialmente apparire; ad esempio, il monologo iniziale di Elettra, sospeso la maestosa regalità del ricordo paterno ,inconsolabile dolore e propositi di liberatoria vendetta, si rifà chiaramente alle lunghe, magniloquenti cavatine che nel repertorio ottocentesco introducono in scena il soprano protagonista. Ed anche per il terzo personaggio in ordine di importanza, Crisotemi, Strauss ricorre a soluzioni non certo inedite ma drammaticamente perfette e magistralmente adattate al contesto: sorella di Elettra, protesa al desiderio di una vita normale piuttosto che ad indugiare in foschi propositi di vendetta, anche lei ha una sua cavatina, in cui il compositore inserisce tempi e melodie da walzer: sarà il cognome, fatto sta che Richard il walzer lo utilizzava spesso e volentieri nelle sue opere, non solo nel contesto "prevedibile" del Rosenkavalier, che ad Elektra dave moltissimo pur sembrando in apparenza un'opera così radicalmente diversa.

Tra Elettra, Clitemnestra e Crisotemi, rimane pochissimo spazio per le voci maschili: Oreste (baritono) è una parte piccola, Egisto (tenore) una parte minuscola, e più che altro sono funzionali all'avanzamento e al compimento finale del dramma: il ritorno di Oreste innesca la seconda grande aria di Elettra, in cui un'immediata, estatica gioia si affievolisce ben presto, lasciando spazio ad una decadente autocommiserazione. L'Elettra di Strauss e Von Hofmannstahl è come una fiamma che brucia intensamente e, a combustibile esaurito, si spegne presto; questa è la prima, chiara avvisaglia e, compiuto il destino di Clitemnestra ed Egisto, lei li segue a ruota. In quella danza triofale, chiusura elettrizzante nella miglior tradizione straussiana, ormai svuotata, logora, cade senza rialzarsi. E non c'è altro da dire.

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