Tra vari motivi, quasi tutti sentimentali, che spingono alcuni come me a preferire il caro, vecchio vinile al freddo cd, c'è anche la possibilità di ammirare per davvero le cover degli album. Negli anni in cui trionfava l'ellepi l'illustrazione delle copertine, pensate ai dischi progressive per esempio, era divenuta una vera e propria forma d'arte, una sorta di icastica prefazione all'album che, nei casi più riusciti, era capace di rivelarti il senso più profondo del lavoro. E se ciò è vero, cover come quella di questo celebre album di Rickie Lee Jones, "Pirates", riescono a rispecchiare nel migliore dei modi i suoi contenuti.
Brassai, grande fotografo ungherese, famoso per immortalare notturni parigini anni '30 e la loro composita "fauna", ferma l'attimo in cui un uomo e una donna, in una suggestiva penombra notturna, si incontrano. Lei gli tiene le braccia al collo; lui rimane con le mani in tasca, un contegno virile tradito da un accenno di sorriso. Non è dato saper se si dicono addio, se progettano una fuga, se è un effimero o mercenario incontro. La sensazione, però, è che due solitudini si siano incrociate; due "losers" che non pensano tanto al futuro, ma solo a rendere almeno sopportabile con un po' d'amore la loro precaria condizione umana.

"Pirates" parla proprio di questo: vita bohémienne, raminga, bukowskiana, o meglio, waitsiana (Rickie è stata anche la donna di Tom e compare nella copertina interna di "Blue Valentine", dove tenta di sostenere il compagno probabilmente messo K.O. dalle troppe libagioni).
Le storie alternano ordinaria disperazione ("Skeletons") a disarmante romanticismo ("We Belong Togheter"), ingenui slanci vitali ("Pirates" - "...Sto cercando di divertirmi/ mentre aspetto che vengano i Pirati a portarmi via...") ad un'ironia corrosiva e molto femminile ("A Lucky Guy" - "...sì, proprio un uomo fortunato/ non si preoccupa di me... va bene, non è l'unico/ ma agli altri cosa è successo?/ Si sono dati da fare/ fino ad annullarsi per una ragazza sola./ Ora sono io una ragazza sola").
Ma tali racconti non sarebbero così incisivi, non rimarebbero così impressi nella memoria se non vi fossero l'inconfondibile voce di Rickie ad interpretarli e, soprattutto, la musica del suo pianoforte capace di disegnare melodie nervose, sincopate, tra tradizione e innovazione, tra jazz, rhythm and blues e folk, tanto emozionanti quanto ricercate. Ma non c'è solo lei e il suo spleen; alla riuscita dell'impresa collaborano fior di musicisti, Steve Gadd, Dean Parks, Randy Brecker, David Sanborn, perfino Donald Fagen, che fa capolino con il suo synth nella title track (alcuni anni dopo il suo compare, Walter Becker, sarà il produttore di un altro consigliato album dell'artista, "Flying Cowboys").

Rickie Lee Jones è un'artista di razza, modello per una generazioni di cantautrici che proprio negli anni nei quali questo lavoro fu pubblicato si affacciarono numerose alla ribalta. E questo lavoro, pur non avendo avuto il grande successo di quello di debutto, le rende pienamente merito ed è forse il modo migliore per avvicinarsi per la prima volta a lei e alla sua inquieta sensibilità.

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