I Riot furono una band fondamentale per la storia dell'heavy metal, in quanto furono i primi, negli Stati Uniti, a contaminarlo con il power metal più primordiale (niente a che vedere con quello in cui si trasformerà il power metal negli anni 90, per intenderci). Questo è difatti considerato, a ragione, il primo disco di power metal americano: o meglio la risposta dell'America al fenomeno dell'heavy metal che si era sviluppato in Inghilterra alla fine degli anni '70 e che era poi degenerato dopo la metà degli anni '80.

La formula che ci propone questo gruppo è semplice quanto infallibile: canzoni brevi ma efficaci, sostenute da un ritmo velocissimo e martellante di batteria, sempre accompagnata da riff e assoli di chitarra incandescenti. Il tutto condito con la voce stridula e assolutamente heavy del cantante,  Guy Speranza, che purtroppo abbandonerà il gruppo immediatamente dopo l'uscita del disco. Già da questo terzo disco dei Riot si percepisce un grande gusto per la melodia, che però non cade mai nel pericoloso baratro della banalità, nonostante i riff di chitarra non siano nulla di innovativo: insomma, questo disco è una perfetta via di mezzo tra gli Angel Witch degli esordi e gli Scorpions di "Virgin Killer". Brani veloci, martellanti, concisi e melodici: di grande effetto.

I pezzi migliori del disco sono "Altar Of The King", che parte come una ballata quasi medioevale, accompagnata da languidi arpeggi di chitarra elettrica per poi sfociare in un hard rock sostenuto, sul quale poi il chitarrista tesse un coinvolgente assolo di chitarra, che definirei in questo caso quasi "rombante". E' l'unico pezzo del disco ad essere chiaramente influenzato dal power-epic dei Rainbow, quantomeno nel testo, decisamente incentrato su un tema fantasy. Ottime anche la title track, la quasi maniacale "Outlaw" e "Flashbacks", un pezzo live il cui pregio è soprattutto la parte strumentale: distorsioni di chitarra elettrica che poi si trasformano in una specie di inno, cantato in coro del pubblico. Il disco finisce con "Hot Life": 25 secondi di assolo stridente, praticamente un gemito di gesso sulla lavagna.

Un lavoro sentito e vivo, caratterizzato da un sound sanguinoso, bollente, sporco: purtroppo poi i Riot cominciarono una lenta quanto inesorabile discesa verso la banalità, discesa che si concluse con la triste pateticità degli ultimi dischi, usciti dopo il 2000. Ma fortunatamente ci rimane ancora "Fire Down Under" e credetemi, non è poco.

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