Che agli Americani piaccia un casino riproporre grandi classici attraverso l'ineffabile cinepresa, nessuno può negarlo: è gente che arriverebbe a montare un remake dell'Antico Testamento con un mega yacht al posto dell'Arca e Noè abbigliato alla Snoop Dogg. Complice la crisi creativa degli Studios, pertanto la carestia di nuove idee per copioni e trame inedite, la moda del macigno letterario ridotto a filmetto parodistico sembra non appassire mai, un po' come la crostata della nonna o Babbo Natale.

Ed è così che lunghe ed estenuanti pagine di volumi infestati dagli acari e dalla polvere si trasformano in discreti e mediocri lungometraggi, perfetti per masse poco affini alla digestione della letteratura che, ciononostante, non perdono l'ultimo blockbuster di grido. Strafogate di popcorn arrivano a sposare una sorta di "educazione culturale" a grandi proporzioni: mescolando i big letterari con l'ingenua bonarietà dell'entertainment americano, fatto di timidi giovincelli semi falliti che, per miracolo, dimostrano di possedere doti tali da sconfiggere il malvagio di turno e guadagnarsi l'amore della loro principessa, anche i più diffidenti al libro sono in grado di racimolare - sebbene con tecniche non particolarmente eccelse - qualche spiccia nozione su cavalieri, castelli, Romeo & Giulietta, Renzo & Lucia eccetera. Lo spirito comico, buonista e demenziale profuso dall'American Way Of Life tende, comunque, a regnare sovrano: nobili regine di cuori diventano gnocche playmates con lo scettro di diamanti e il perizoma leopardato, impavidi condottieri lasciano nella scuderia l'equestre purosangue e inforcano l'Harley, mentre il temibile nemico non è altro che il classico fighetto sborone, egocentrico e superbo da umiliare senza pietà.

Nei sabati sera in cui le palle da discoteca posseggono un potere magnetico pari ad una frizzante replica estiva di Porta a Porta e la conviviale bevutina al pub inizia a far sbuffare persino i più caparbi al cambiamento, succede che le nostre chiappe siano dirette verso le multisale. E che, magnetizzato dal fascino degli occhialetti, il cervello stimoli gli arti (superiori ed inferiori) ad acquistare biglietti e a dirigersi verso sale proiettanti codesti capolavori. Come, per esempio, "I Fantastici Viaggi di Gulliver".

Il celebre personaggio, nato dalla penna di Swift, viene affidato all'interpretazione del rockettaro Jack Black, nonchè inserito nella giostra globalizzata della Grande Mela: uno scialbo e timido portalettere aziendale privo di certezze e semi depresso, come vuole la meglio tradizione americana. In un lungometraggio dove la pseudo - feudale Lilliput si evolve, per volontà di questo irriverente omuncolo, nella New York 2.0 (dotata di insegne luminose e manifesti inneggianti a Michael Jackson e Avatar, tutti in allegra compagnia) e persino appaiono dei robot tra residenze barocche e fortezze incantate, Gulliver riuscirà a sconfiggere l'apatia dello yankee medio e a coronare il sogno d'amore con la collega più rimorchiata dell'azienda.

Tutto divertente, certo: possono, comunque, queste filmiche semplificazioni di pietre miliari della letteratura occidentale risultare utili alla loro corretta comprensione? Difficile, se non impossibile, attribuire un qualsiasi valore, diverso dal puro spasso, ad un film che, spudoratamente, sovrappone al mondo odierno, iper - tecnologico e avanzato, contesti assolutamente diversi per mentalità e filosofia di vita. Vedere Gulliver con le All Star, l'I-Phone e il Radar discorrere di fighe e insegnare ai Lillipuziani a "battere cinque" può far sorridere, ma niente più. La "cultura" del coraggioso mix passato - presente - futuro garantisce senza ombra di dubbio incassi ragguardevoli, contemporaneamente valorizza poco o male l'opera dell'uomo nei secoli, nonché la sua evoluzione mentale e di coscienza. Di fronte al botteghino, tuttavia, essa pare l'ultima delle preoccupazioni.

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