Quando passi un'atipica giornata di Giugno a camminare per Roma, dal basso all'alto, per poi tornare ancora giù, più giù, tra l'asfalto a gridare contro palazzi grigi e sordi, non puoi desiderare altro che i calorosi lamenti di un vecchio mezzadro del blues a rincuorare il tuo stanco cuore, al chiudersi del sipario dinanzi un sole malato.
Con questo premetto le mie enormi aspettative nei confronti del vecchio Robert Belfour, carpentiere del blues del Mississippi: 73 anni d'esperienza che affiorano tra le labirintiche rughe delle sue mani nere come la notte. Il concerto si tiene all'Init, all'interno della rassegna Mojo Station Blues Festival giunta, a quanto pare gloriosamente, alla sua nona edizione. Arrivo tra gli imperiosi archi romani che circondano il locale in tempo per l'esibizione di quel simpaticone dixie che sembra essere Lightnin' Malcolm. Anche lui viene dai caldi campi del Mississippi, ma la sua pelle è bianca e gli anni sono la metà di quelli di nonno Robert. Propone comunque quasi un'ora di blues elettrico e sincero, tra ritmi classici e toni più moderni, accompagnato occasionalmente da un'armonicista. Coinvolge e fa muovere il culo alle prime file, poi ci saluta annunciando l'imminente arrivo dell' "ultima legenda vivente del blues: Mr Robert Belfour!".
Esco con calma per prendere un pò d'aria e finire la mia bottiglia di vino, convinto che, stando a quanto scritto su locandine e flyers, fosse compito di tali Left Lane Cruisers, dall'Indiana, quello di introdurre l'headliner della serata. Invece spinto dal mio senso del ragno (e da quanto detto prima da Malcolm), torno dentro e sul palco una luce bianca illumina divinamente le forme del signor Belfour. Il suo corpo emana vibrazioni che mi fischiano in testa e mi ritrovo sotto il palco con una faccia da ebete ubriaco ad annusare l'odore della sua chitarra acustica così vecchia, così vissuta. Lui è seduto al centro del palco su una sedia. Alla sua destra, a terra, c'è una borsa di pelle nera che potrebbe contenere una pistola o tutta la sua infinita saggezza (in realtà contiene un asciugamano che usa per pulirsi la faccia tra una canzone e l'altra). Parla, parla, parla ancora con quella voce lenta, roca ed esausta che avevo sentito finora solo su vecchi dischi della Chess Records o in primitive registrazioni di Alan Lomax. Abito chiaro, cappello con la piuma, scarpe scure eleganti. Lui è nero come inchiostro su una bianca pagina sbiadita. Dietro di lui c'è il grosso e largo Lightinin' Malcolm (suona ogni strumento gli mettiate davanti) a tenere sofficemente il tempo alla batteria. Nell'arco di circa quaranta intensi minuti Robert Belfour caccia fuori quattro, cinque blues che tira per le lunghe, tra ululati à la Howlin' Wolf e fraseggi parlati. Il pubblico è in estasi: fischia, balla, abbaia. Ma qualcosa mi turba in questo vortice di frenesia. Ascolto, guardo in silenzio e cerco di lasciarmi trasportare ma noto che il bluesman, classe '40, tra un verso e l'altro lascia sgorgare, come minuti serpenti di gelatina, non-troppo-piccoli rivoli di saliva bavosa dalle labbra, mentre trascina con fatica, farneticando un poco, le parole dalla lingua al microfono. Le dita sembrano seguire un ultraterreno istinto mentre si muovono frenetiche sulle sei corde, ma viaggiano su una chitarra che suona - sembrano parole d'eresia e piango nel pronunciarle - acida e scordata. Malcolm nella sua ombra corruga la fronte e segue, sudando, con gli occhi le note che si disperdono e scompaiono nell'irregolarità che le muove. Finchè dalla porta d'uscita in fondo al palco s'affaccia un ragazzo (probabilmente l'organizzatore) che, con muti gesti, chiede al batterista se tutto è ok, se Robert ce la fa a continuare. Difatti, terminata la canzone, Malcolm si alza, prende il microfono di Belfour e saluta tutti ricordandoci ancora che: "Robert Belfour, signori e signore, è l'ultima legenda vivente del blues!". Rimango sotto il palco interdetto ad osservare prima lo stesso Belfour che si affaccia dall'alto palcoscenico dell'Init per stringere le mani in un equilibrio a dir poco precario, e poi Malcolm, l'organizzatore ed altri due tipi che aiutano il vecchio signore del blues ad uscire dallo stage, dribblando sedie, cavi e quant'altro. Esco ancora fuori, non so che dire. Ero venuto cercando l'estasi mistica e sciamanica dei vecchi suoni d'America africana e mi sono trovato davanti il terribile ed assassino Tempo, che uccide e non ha cimiteri. Senza dubbio Robert Belfour è stato, ed è tuttora, un uomo che merita rispetto, senza riserve. Ma è giunto, a mio parere, ad un punto nel quale trovo sia veramente di poco gusto farlo esibire da un continente all'altro, notte dopo notte. Bevo una birra ed accetto il fatto che non puoi vivere il passato. Otis Redding non c'è più. Muddy Waters non c'è più. Robert Belfour, ahinoi!, non c'è più.
p.s. un richiamo di chitarre distorte e soffocate mi risveglia dai miei tristi pensieri esistenziali e mi risucchia all'interno del locale dove trovo il duo dei Left Lane Cruisers, che risollevano il mio morale con set di garage-blues infuocato che termina con una scintillante jam session che coinvolge anche l'onnipresente Lightin' Malcom alla chitarra.Pedali, slide, bicchieri di birra sparsi a terra. Un concerto rozzo, sudato, da 10 e lode, che chiude questo fantastico festival romano, nel bene e nel male, con la ciliegina sulla torta.
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