1973. Ninive, Mossul. Lancaster Merrin è un uomo in fuga dal suo passato e da Dio. Gli orrori della seconda guerra mondiale hanno soffocato la sua fede e lo hanno trascinato ai piedi di un antico e polveroso scavo archeologico nel deserto dell'Iraq. Le ferite della sua anima sono col tempo diventate cicatrici, e soltanto la speranza che gli incubi del passato non possano stanarlo in un luogo tanto remoto sembra in grado ormai di animare il suo vecchio cuore malato.
Sotto un sole infuocato, tra gli operai che scavano freneticamente alla ricerca di antichi manufatti, un ragazzino corre a perdifiato in cerca di un supervisore: "hanno trovato qualcosa, dei frammenti, alla base della collina; lumi, punte di frecce, monete".
Di reperti archeologici padre Merrin ne aveva visionati a centinaia, ma il ritrovamento di quel piccolo medaglione in argento raffigurante la Sacra Famiglia lo aveva colpito profondamente. Rinvenire un simile reperto in un sito precristino é inspiegabile e inquietante al tempo stesso. Ora, sul luogo del ritrovamento, padre Merrin nota qualcosa all'interno di un'angusta fessura. Con l'aiuto di un utensile riporta alla luce un piccolo amuleto verdastro, una scultura dalla fattura grossolana, e immediatamente una sensazione di dejà vu si impadronisce di lui. La sua mano tremante estrae un pennello dal taschino di un archeologo, e ora, dopo aver rimosso la polvere e staccato dal reperto la pietra alla quale era unito, Lancaster Merrin non ha più dubbi: la statuetta zooantropomorfa dissotterrata è proprio quella del demone assiro Pazuzu.

1961. Greenwich Village, New York. John Hammond è un produttore musicale e talent scout di punta della Columbia Records. Per anni ha anteposto la musica agli affetti più cari, sacrificando in suo nome il proprio matrimonio e incrinando per sempre i rapporti con il primogenito John Jr. Per anni ha nascosto la propria solitudine dietro un biglietto da visita e i propri insuccessi dentro una bottiglia di whiskey.
Sotto un sole infuocato, davanti a centinaia di studenti, un ragazzino armato soltanto di chitarra, armonica e una manciata di testi poetici e disincantati, canta a squarciagola in cerca di fortuna: "I'm out here a thousand miles from my home / walkin' a road other men have gone down".
Di artisti promettenti John ne aveva visionati a centinaia, scoprendo e mettendo sotto contratto talenti eccezionali del calibro di Aretha Franklin, Charlie Christian e Pete Seeger, ma questa volta qualcosa lo aveva colpito profondamente. Negli occhi di quel ragazzo mingherlino e dalla voce nasale venuto dal Minnesota, John aveva visto luccicare una strana luce, una luce sinistra e familiare al tempo stesso.
Ora, seduto nel suo ufficio, tra un bicchiere e l'altro, John è assillato da una fastidiosa sensazione di déjà vu. Ha già visto brillare in passato quella luce ma non riesce a mettere a fuoco in quale sguardo. Lentamente ma inesorabilmente, un'ombra affiora dai meandri dei ricordi; quello sguardo ha riportato alla luce un'immagine da tempo ormai sopita. In piedi di fronte al proprio archivio, scorre freneticamente i vecchi vinili in cerca di un 78 giri in grado di dare nome e cognome a quell'ombra. La sua mano tremante estrae un vinile polveroso, e ora, dopo aver soffiato via la polvere e aver abbassato la puntina del giradischi, John Hammond non ha più dubbi: quella luce è la stessa che brillava nello sguardo di un bluesman del delta del Mississipi incrociato molti anni prima, Robert Johnson.

In quell'occasione Hammond ne rimase stregato, e poco tempo dopo decise di contattarlo per il suo spettacolo "From Spirituals To Swing", alla Carnegie Hall di New York. Era però troppo tardi ormai, perché Robert Johnson era morto il 16 agosto 1938, a soli 27 anni.
Da allora e per molti anni, lui e la sua chitarra saranno inghiottiti per intero nelle tenebre, fino a quando, nel 1961, Hammond non riuscirà finalmente a convincere la Columbia Records a pubblicare questo LP.

Sicuramente i primi anni sessanta sono tempi favorevoli: il folk è un genere alla moda, il menestrello sta per rubare al re la sua corona di spine, l'America nera è in fermento ed è tutta una corsa alla radici.
Johnson viene ora esposto ad una nuova generazione di appassionati di blues che ha già avuto modo di apprezzare Muddy Waters, Howlin' Wolf e gli altri grandi interpreti del blues elettrico che da Johnson stesso erano stati influenzati. Una generazione di ascoltatori per i quali "Johnny B. Goode" è il vero inno americano e che, grazie alla sempre più folta colonia britannica, comincia a spostare il proprio baricentro verso il centro dell'oceano Atlantico.

Ed è proprio oltre l'oceano Atlantico, così come accade - anche se con verso opposto - nella pellicola diretta da Friedkin, che si dirige il fulcro della narrazione.
Nei panni di Regan un giovane Clapton che a distanza di anni ammetterà candidamente di non sapere se quel giorno sia stato lui a scegliere questo disco, o il disco a scegliere lui. Un giovane Clapton che, inconsapevole, di Robert Johnson erediterà la maledizione: costretto nel limbo di un eterno presente, privato come Johnson del proprio passato e del proprio futuro. La maledizione di chi non conoscerà mai il proprio padre, e non saprà se il proprio figlio primogenito, in paradiso, potrebbe mai riconoscerlo. Inutile tormento, in fondo, per chi al crocicchio ha stretto un patto con il diavolo ed è destinato alleterna dannazione. Inutile tormento per chi ha barattato la propria anima con una chitarra. Inutile tormento per chi ha barattato le proprie chitarre con l'eroina.

Clapton ha sempre osservato un rispetto quasi religioso per questo disco. Ha sempre trattato con deferenza ogni suo singolo brano. Quando li suonerà, non lascerà che sia nessun'altro a cantarli: la prima volta che si avvicinerà ad un microfono sarà sul leggendario disco con Mayall, nella riguardosa e compostissima "Ramblin' On My Mind". Quando violenterà "Cross Road Blues", reinterpretandola con devastante e demoniaca potenza, sarà soltanto dal vivo, e mai in studio. Sarà ossessionato a tal punto da questo disco da arrivare a non rivolgere la parola a chi non lo avesse mai ascoltato.
Attraverso Eric Clapton e la sua incendiaria "Crossroads", Robert Johnson muoveva un ulteriore passo - forse il più importante - nella sua lenta e silenziosa ascesa all'olimpo del rock. Nel corso degli anni comparirà spesso infatti, come Pazuzu, sottoforma di messaggio subliminale: Dylan inserirà questo LP, con apparente non curanza, nella copertina di "Bringing It All Back Home" del 1965; Keith Richards camufferà la ritmica di "Preachin' Blues (Up Jumped The Devil)" all'interno dell'assolo di "Sympathy For The Devil"; il suo caratteristico riff verrà riutilizzato fino alla nausea, e lo stesso riff che Chuck Berry adotterà in numerosi brani, tra i quali "Johnny B. Goode" e "Roll Over Beethoven", sarà la naturale evoluzione di una sua intuizione, filtrata attraverso Elmore James, in "I Believe I'll Dust My Broom".

Tra tutti i grandi bluesmen, la figura di Johnson è sicuramente la più oscura, avvolta com'è dal mistero. Per anni non si è saputo neppure che faccia avesse, non uno straccio di immagine fissata su pellicola in grado di testimoniarne l'esistenza (le uniche due foto in nostro possesso - lo si evince dalla copertina - sono state rinvenute successivamente alla pubblicazione di questo LP). Della sua vita si conosce poco e niente: tutto ciò che si sa con certezza è che ha inciso poco e venduto ancora meno; per certi versi è come se fosse esistito soltanto in queste registrazioni. Della sua morte invece si è scritto molto: non per come morì (come tutti d'altronde, a stento), ma perché da quel giorno in poi la sua storia non ha mai smesso di ripetersi. Brian Jones, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, e la lista potrebbe continuare ancora, tutti indossolubilmente legati alla musica del diavolo (il blues), tutti fatalmente imprigionati nell'incarnazione della perversa e maledetta trinità di droga, sesso e rock'n'roll, tutti morti a soli 27 anni.
Coincidenze, direte. Nefaste, aggiungerà qualcuno. Superstizione forse. Come il celebre patto che Johnson stesso avrebbe stipulato con il diavolo a mezzanotte in punto ad un incrocio della famosa Highway 61, l'autostrada del blues. Ma quella sera Dio non era lì. Quella sera Dio non c'era. Il suo sguardo era rivolto altrove, poco distante. Qualcuno lo pregava affinché aiutasse Tupelo nella sua notte più difficile. Sotto una pioggia nera, i fiumi diventarono strade, e le strade fiumi. La domenica stava per togliere quello che il sabato aveva dato, un bambino nasceva e suo fratello gemello moriva. Nasceva il messia che ci avrebbe insegnato a peccare. Le genti lo avrebbero chiamato re, e la sua nascita sarebbe stata segnata dalla morte di chi lo aveva preceduto. La profezia ora era compiuta.

Attraverso Robert Johnson, il diavolo in persona aveva sparso il seme cattivo del rock'n'roll in grembo al blues. Attraverso Robert Johnson aveva reinventato la personificazione dell'artista maledetto. Attraverso Robert Johnson aveva cominciato a pretendere il rispetto delle infami clausole dei suoi contratti, e a seguire imperterrito i passi di tutti coloro che suoneranno questa musica come loro ultima speranza di redenzione. Era infatti tra il pubblico quando Jimi Hendrix struprò e bruciò la sua Stratocaster. Pilotava un Beechcraft Bonanza il giorno in cui la musica morì. Guidava divertito contromano quando Dylan ebbe il suo incidente in moto. Guardava compiaciuto i suoi angeli, il giorno in cui ad Altamont la summer of love tramontò definitivamente. Era con un incredulo Robert Plant quando le parole di "Stairway To Heaven" sembravano scriversi da sole. Assisteva ad un concerto di Frank Zappa & The Mothers quando sparando un razzo segnaletico provocò fumo nell'acqua e fuoco nel cielo. 

Questo non è un disco per tutti. Se per voi la musica è puro intrattenimento, dimenticatevi di quest'uomo e della sua chitarra. Se per voi la musica è precisione maniacale, profondità e pulizia di suono, non avvicinatevi ai suoi blues sgraziati e carnali, alle sue cantilene paranoiche e disperate. Se per voi il talento si misura a colpi di metronomo, o si pesa a note suonate al secondo, non avvicinatevi nemmeno al blues. Per carità, non fatelo. Questo è probabilmente il disco più importante della storia del rock, registrato quando ancora il rock non era neanche nato.

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