Robert Silverberg, nato a New York, classe 1935, è un altro di quegli autori il cui contributo alla causa del genere fantascientifico, sin dagli anni cinquanta, è stato in qualche maniera determinante non solo per la qualità delle sue opere, ma anche per la quantità. Una mole di produzioni che unitamente a quella di altri suoi contemporanei, hanno praticamente costituito un vero e proprio 'corpus' letterario. Quelli che più che dei pilastri oppure delle fondamenta sono già interi palazzi, il cuore di una megalopoli in continua espansione. Infinita. Su più livelli.

Parliamo di fantascienza del resto è di un autore, Silverberg, che vi si è sempre dedicato, come ad altri generi e la redazione di opere di saggistica, e che affrontò in maniera dissidente quelle che furono le due grandi crisi nell'editoria del settore nel secolo scorso, ritirandosi brevemente dalle scene. La prima volta alla fine degli anni cinquanta, quando si concluse l'epoca delle 'pulp magazine'e delle riviste, una miniera per gli assetati di fantascienza e un luogo caro a tanti autori del genere. La seconda volta negli anni ottanta, profondamente irritato e deluso per il generale disinteresse e la sufficienza delle case editrici.

Ciononostante, nonostante questo due periodi di pausa, Silverberg non ha mai smesso di scrivere e di scrivere fantascienza, riprendendo attivamente a farlo poi sin dalla fine degli anni ottanta e in maniera prolifica anche nel decennio successivo, pure piegandosi alle logiche del mercato e nel caso proponendo tre romanzi ispirati a tre short stories del grande Isaac Asimov. Grande, ma ovviamente non unico autore esclusivo di materia fantascientifica per un genere e un intero mondo che oramai tende a scomparire e forse solo sul web può trovare una sua dimensione, proprio come avrebbero potuto pronosticare autori del genere cinquanta-sessanta anni fa e in particolare con lo sviluppo del subgenere cyberpunk. Questo anche se i gusti dominanti, va detto, hanno abbandonato - pare - definitivamente la fascinazione della sci-fi classica mescolandosi sovente a un certo gusto per il fantasy che oggi sembrerebbe andare per la maggiore oppure eccedendo in inutili tecnicismi poi portati pure sul grande schermo con risultati non sempre entusiasmanti. 'Gravity', 'Interstellar', 'The Martian', quali di questi si può dire vi abbia effettivamente emozionato. Se parliamo di grandi produzioni sci-fi forse l'unico momento veramente emozionante è stato il trailer di Star Wars dove si rivedevano assieme Han Solo e Chewbacca. Senza parlare della fine di Carrie Fisher. Dove la sua figura pubblica si è incrociata inevitabilmente con quella del personaggio della principessa Leila. Una fine che mi ha colpito molto. Per la maniera forte in cui ha vissuto. È stata una grande donna e penso che abbia fatto veramente l'impossibile per prendere parte al suo ultimo oramai film della serie. Il suo ultimo film.

Carrie Fisher fu una donna coraggiosa e pure allo stesso tempo dalla tempra avventurosa. Per questo secondo molti perfetta identificazione della principessa Leila, una delle maggiori eroine della sci-fu avventurosa tout-court. Un genere che sin dai tempi delle avventure di John Carter da Marte di Burroughs e ancora prima con romanzi di Jules Verne, ha fatto sognare intere generazioni. Sogni che poi molte volte sono diventati realtà. Sogni che altre volte erano già una rappresentazione della realtà. Una rappresentazione mediata. Un compromesso tra l'esistenza reale e il sogno e una maniera attraverso il secondo di comprendere i significati della prima.

Così intendo questo romanzo, 'The Longest Way Home' (2002), che in qualche maniera può anche esso richiamare un certo genere fantasy tipico e forse proprio l'opera di genere per eccellenza cioè, 'The Lord of the Rings' di Tolkien. Se non altro perché entrambe le storie hanno come protagonista principale un giovane che, estrapolato dal suo contesto originario e per forza di cose confortevoli, dovrà provare se stesso attraverso un lungo viaggio condotto per lo più in solitudine, attraverso terre brulle e desolate, scaldando montagne e attraversando foreste e incontrando popolazioni sconosciute e razze strane, strani animali parlanti e ovviamente anche dei nemici che ostacoleranno il suo cammino. Un cammino che vede il protagonista attraversare una specie di vero e proprio cammino ascetico e durante questo segnare nel fisico prima ancora che nella mente, il proprio passaggio all'età adulta in una maniera violenta. Come se in alcuni casi questo passaggio non potesse verificarsi diversamente. E chi lo sa. Forse in qualche modo è comunque sempre così per tutti.

Al di là del contenuto avventuroso dell'opera, per quanto vi sia una importante componente fantastica, il romanzo di Silverberg va invero comunque considerato a tutti gli effetti come un'opera di fantascienza. Che si propone tra le oltre cose, oltre che rilanciare il tema solito della colonizzazione dello spazio, anche di affrontare quelle che sono delle tematiche di natura sociale. Che sono probabilmente elementari, persino evidenti per quanto 'grossolane' queste siano agli occhi del lettore, ma che viste dalla prospettiva del protagonista, il giovane Joseph Keilloran, erede designato di Casa Keilloran, una delle più importante dinastie della stirpe dei 'padroni' che abitano il pianeta Patria, costituiscono invero delle vere e proprie rivelazioni che sconvolgeranno profondamente il suo animo e costituiranno momenti formativi che lo segneranno profondamente nella fase più determinante della sua esistenza. Patria: un pianeta che i terrestri hanno colonizzato in due ondate e in entrambi i casi praticamente ignorando quelle che sono le specie abitanti del pianeta, rappresentate magnificamente dalle abilità descrittive e narrative dell'autore; e dove i colonizzatori della prima ondata, il 'popolo', sono stati praticamente per quasi l'intera totalità sottomessi alla volontà dei colonizzatori della seconda ondata (i 'padroni') al termine di una battaglia che i vincitori ricordano e commemorano come 'conquista'.

La storia, ne consegue, parte in maniera quasi inevitabile da una rottura negli equilibri storici del pianeta e come da tradizione nei romanzi e le storie che il cinema americano oggi definirebbe come 'coming-of-age' vuole il protagonista misurarsi e temprarsi in tutta una serie di prove e di situazioni per lui inedite, persino inizialmente incomprensibili, fino a diventare uomo. Un uomo migliore di quello che avrebbe potuto essere.

Un bel romanzo d'avventura che si legge tutto d'un fiato dall'inizio alla fine è dove questa costituisce forse il limite, quella cosa che ti lascia l'amaro in bocca. Non perché il finale sia banale, brutto, semplice, finale. Ma perché c'è una fine è dopo quell'ultima pagina e l'ultimo rigo, l'ultimissima parola che lo compone, ti domandi allo stesso tempo che ne è stato e che cosa ne sarà di quel ragazzo che avevi preso per mano all'inizio della storia.

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