È con la consapevolezza di essere totalmente inadeguato all'incarico che io stesso ho scelto d'accollarmi che mi accingo a parlare de "I vicerè", ultima fatica di Roberto Faenza; inadeguatezza in parte dovuta al non aver letto il romanzo di De Roberto da cui il film è tratto, in parte al consistente pregiudizio nei confronti dell'autore che mi accompagnava all'entrata della sala.
"Ho odiato i suoi ultimi film" dicevo a una mia compagna di visione, riferendomi in particolare a quell'inguardabile pasticcio che è "I giorni dell'abbandono", in cui si sputtanava la pur buona prova di una incolpevole (e sempre nevrotica) Margherita Buy, tra dialoghi pretenziosi e scelte di regia alquanto discutibili (la soggettiva del ramarro la sogno ancora la notte). Ammetto di non aver mai approfondito la conoscenza di quest'autore, che mi incantò con "Jona che visse nella balena", forse per le reiterate delusioni seguite alla visione di film inutili e noiosi come "Prendimi l'anima" e "Marianna Ucria".
E tuttavia non credo di approfondirla ora, dopo aver assistito all'opera in questione. Ho cercato di dimenticare per 120 minuti le polemiche che hanno accompagnato l'uscita del film, le tronfie parole di un regista che, tagliato fuori dalla Festa di Roma, gridava al complotto e alla censura, i miei stessi pregiudizi e la terribile notizia che un mio amico mi ha rifilato mezzo secondo prima dei titoli di testa ("sembra sia nato come fiction" - argh, ho speso 7 euro per vedere una fiction!!!), e ho iniziato, puro come un demente e con una tabula rasa al posto del cervello, ad immergermi nella Sicilia Ottocentesca in cui si consumano le vicende narrate.
La storia è quella della famiglia Uzeda, discendente dai vicerè spagnoli della Sicilia di Carlo V, a cavallo tra la dominazione borbonica e la nascita dello Stato Italiano, vista attraverso gli occhi del giovane Consalvo, che prima osserva con distacco i misfatti e i taciti orrori che inabitano il suo marcio nucleo familiare, e poi si rivela (in un finale frettoloso ma d'effetto) interessato quanto i suoi familiari al potere e alla sopravvivenza del casato, dandosi alla politica e suscitando l'ilarità della sala con un comizio forzatamente di compromesso. Non avendo letto il romanzo non so quanto fedele sia questa trasposizione cinematografica, ma poco questo interessa allo spettatore di un film. E purtroppo come film "I vicerè" è fallimentare sotto molti punti di vista. Innanzitutto, a causa di infelici scelte di cast, le emozioni descritte dai personaggi sono stilizzate quando non appena abbozzate: se si esclude un buon Lando Buzzanca (che probabilmente si dirige da solo, visti gli altri attori lasciati in balia di loro stessi) nel ruolo del dispotico pater familias Giacomo, che pure accentua troppo i lati più grotteschi del suo carattere, i comprimari sono spesso inadeguati, Preziosi è fintissimo e teatrale e la Capotondi fuoriparte. Per il resto Faenza si conferma un regista tanto ambizioso quanto "rozzo", facile: gli manca l'intensità del vero autore, la sensibilità del regista come artista, la capacità di far accordare magicamente la "piccola" e la "grande" storia.
Tutto nel suo film suona tanto più falso e ovvio quanto più la materia trattata è incandescente: e lo è davvero, visto che in due ore circa di pellicola assistiamo a tradimenti, aborti, incesti, preti lussuriosi e le loro poppute ganze, amori romantici e altrettanto romantici e disperati suicidi. Ma nulla di queste cose tocca davvero lo spettatore, anestetizzato com'è da una narrazione sterile e piatta e da uno stile patinato e alla moda, che si limita a filmare una prevedibile Sicilia da cartolina e a sottolineare pedantemente le scene madri con orrendi ralenti... il peggio del cinema che si finge d'autore.
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