SCUOTI LA CULLA (NEL TEMPO).
Gli occhi del demonio guardano a Ovest, nel febbrile Sessantotto che sorprende il pallido e polveroso Eden borghese degli Stati Uniti. Al buio delle umane miserie, trova un motivo d'interesse e curiosità malcelate nell'infervorarsi della contestazione giovanile, spesso ingenuamente persa in una dialettica che possa ristabilire un diverso ordine sociale. Quando invece è un semplice strumento a uso e consumo del Sistema. La Rivoluzione Culturale in Cina. Le lotte operaie. L'orgogliosa resistenza vietcong nelle giungle d'Indocina, a fronte dell'invasore americano. Satana muove la coda con furia, e sputa sangue nel terreno fertile di retorica e stolta abnegazione. Ti sorride compiaciuto, col ghigno feroce del venditore di polizze assicurative, e poggia l'ossuta mano unta sulla tua spalla ingobbita. Il cielo era una nube di morte e aria tossica, la notte del 9 agosto '69 a Bel Air.
"Rosemary's Baby" come un incubo cinematografico, la dogana al confine tra realtà e fantasia, immaginario e oggettivo circostante. Un pò quello che covava dentro Roman Polanski, quasi sorpreso dai tumulti socio-politici dell'epoca, un osservatore distaccato con l'atteggiamento falsamente anticonformista del dandy-europeo. Ripiegato solo sulla propria immaginazione "al potere", sul suo estro d'autore. Il regista polacco, naturalizzato e fagocitato dalla cultura a stelle e strisce dopo gli exploit di Repulsion e Cul De Sac, voleva dare un seguito alla farsa vampiresca di Per Favore Non Mordermi Sul Collo, questa volta in chiave più sottile, ambigua, "diabolica". Una commedia nera, un sogno-incubo che negasse qualsiasi facile via di fuga: nacque così Rosemary's Baby. Tratto dall'omonimo bestseller di Ira Levin, illustra le strane vicende (allucinazioni?) di Rosemary Woodhouse, in procinto di partorire, e del consorte Guy, giovane coppia appena trasferita in un vecchio e tristemente famoso palazzo, il Bramford, tra stregonerie e sabba ancestrali nel cuore della New York anni Sessanta. Lo sguardo stravolto e impaurito dell'efebica Mia Farrow, viso da bambina e capelli cortissimi, distilla angoscia nella protagonista Rosemary, ossessionata da una congiura demoniaca contro la creatura che porta in grembo; ad opera degli anziani co-inquilini Castevet, stregoni mimetizzati negli abiti festosi della middle-class newyorkese. Non serviranno le continue rassicurazioni del maritino Guy Woodhouse (interpretato dalla futura icona del cinema indipendente U.S.A. John Cassavetes) a spezzare il mistero, la fascinazione onirica dal dubbio di una reale dannazione in Rosemary: anzi, nel finale speculare all'Apocalisse cristiana, il premuroso e carrierista Guy avrà un ruolo tutt'altro che minoritario..
"Rosemary's Baby" è quindi anche l'incubo soggettivo dell'eroina piccolo-borghese, che rifiutando l'imminente maternità trasferisce nelle persone vicine ( in apparenza affettuose) una latente repulsione (e torna Repulsion, cioé la dissociazione psichica, la malattia mentale purificatrice nella società borghese e bugiarda). Una metafora di riti satanici e magia occulta, che orchestra le dolorose tappe dell'integrazione di Rosemary in un "nuovo mondo", a cui sente di non appartenere ma che deve accettare. Un viaggio allucinato dove, come in tutto il cinema polanskiano, è l'irrazionale, l'imponderabile a definire la vittoria finale del Male. Non esiste un pacificatorio "happy ending", perché secondo Polanski l'ordine violato inabissa l'Occidente in un processo irreversibile di auto-annullamento e decomposizione. Ovvero, dietro l'ipocrita facciata perbenista e mistificatrice nascondiamo, e difendiamo, il Nulla ideale. Qualcosa si agita nervosamente nella culla. Odore di zolfo.
"..Sono ateo. Dunque accettare quel che avviene in Rosemary's Baby sarebbe andare contro quello che io sono e quello in cui credo. Perciò non avevo, né ho paura. Ma vorrei trovare una specie di droga che mi permettesse di dimenticare completamente il film e di andarlo a vedere per la prima volta come hanno fatto i miei amici..Purtroppo, poiché ho fatto il film e non credo né a Dio né al Diavolo, sono doppiamente incapace di avere paura del mio film, che mi annoia molto.."
(da un'intervista su Les Cahiers Du Cinéma, gennaio 1969).
Carico i commenti... con calma