Esiste il neo-folk in Italia?
No, però ci sono i Rose Rovine e Amanti.
Il progetto nasce nel 2002 per mano del factotum Damiano Mercuri e proprio in questi giorni raggiunge il traguardo del terzo album (“Giorni di Splendore e Sole”), dopo aver guadagnato una certa visibilità nel settore grazie ad una lunga gavetta e diverse pubblicazioni: EP, mini, split interessanti con gente interessante (da segnalare quello in compagnia di Sol Invictus ed Andrew King) e due full-lenght, “Rituale Romanum” (2006) e “Demian” (2009), di cui sembra si parli molto bene e di cui mi appresto oggi a parlarvi io stesso.
Prima di iniziare la disamina c'è tuttavia da fare una doverosa premessa: non mi piacciono gli album cantati per metà in una lingua e per metà in un’altra; e non mi piacciono gli album cantati in italiano in cui non si capiscono bene le parole. “Demian”, purtroppo, racchiude in sé entrambi questi aspetti, impossibile quindi farmelo piacere fino in fondo.
Peccato, perché la proposta era interessante e le canzoni tutto sommato c’erano. A detta dello stesso Mercuri “Rose Rovine e Amanti combina del “neofolk” italiano con un tocco di neoclassicismo sacrale, il tutto mischiato a del buon vecchio fumoso cabaret europeo”. Perché almeno una cosa i Rose Rovine e Amanti l’hanno capita: che gli italiani non sono inglesi o tedeschi, che gli italiani sono degli scazzoni, inutile quindi rinunciare al calore del Mediterraneo e ripercorrere in modo scolastico i sentieri rigorosi dei colleghi europei. Con molte assonanze con quanto combinato negli ultimi anni dai sempre italianissimi Spiritual Front, i Rose Rovine e Amanti di “Demian” coniugano neo-folk e umori da osteria, atmosfere che richiamano direttamente la tradizione del cabaret italiano, francese e tedesco.
Spiegava Mercuri all’uscita dell’album: il neo-folk acustico l’ho già fatto, adesso ho bisogno di maggiore energia e più colori negli arrangiamenti. Quindi in “Demian” c’è anche del rock, ci sono chitarre anche elettriche e interpretazioni vocali che nel frattempo sono maturate: insomma, tutto concorre a rendere quella di Rose Rovine e Amanti una proposta matura, fresca, personale, slegata da molti dei cliché che il genere impone. Tutto molto interessante, senza dubbio, ma rimane per me - ripeto – una scelta stilistica discutibile quella dell’adozione in molte parti della lingua inglese (in particolare quando si parla di un gruppo italiano, dedito ad un genere come il neo-folk, per sua natura contro l’omologazione massificante della globalizzazione, di cui la lingua inglese ne è senz'altro un’espressione). Un inglese maccheronico, per giunta, sul quale tacere è bello, posto accanto a parti in italiano che, per motivi di mixaggio, non sempre sono intellegibili, e quando lo sono, ahimè, non ci consegnano certo la sensazione che Mercuri sia un paroliere eccelso.
Difficile, veramente difficile, che questo lavoro mi possa piacere fino in fondo.
Peccato, perché la proposta era interessante e le canzoni tutto sommato c’erano. O meglio: l’ascolto scorre, è breve (poco più di quaranta minuti), ben articolato e bilanciato fra struggenti ballate e momenti più ruvidi. Di classico, di etnico, di rituale c’è ben poco; abbastanza vaghi i rimandi ai tutori del genere (i Death in June, per certi arpeggi di chitarra; i Sol Invictus, per le ambientazioni trobadoriche): il folk di Mercuri è solare ed orecchiabile, potrebbe Mercuri essere uno dei tanti cantautori che infestano il nostro paese, se non fosse per il messaggio che egli intende veicolare tramite la sua musica. Ossia:
- Rose: simbolo di bellezza, caducità e dell’Europa;
- Rovine: decadenza del mondo moderno, viva la tradizione;
- Amanti: amore e onore, passione e dolore.
Che palle, eh? Sono quindi i temi trattati, più che la musica in sé, a ricongiungere la proposta di Rose Rovine e Amanti al filone neo-folk, di cui fra l’altro Mercuri non disconosce l’affiliazione: fervente e praticante cattolico, il Mercuri si schiera in difesa dei valori più profondi del Cristianesimo, messi in discussione dalla “dittatura del relativismo”. Avrete capito che questo album non può veramente piacermi fino in fondo.
Ma se mi capita d’ascoltarlo è perché scorre. Già dall’iniziale “Il Gatto Osserva” si intravedono le consistenti qualità tecniche di Mercuri alla chitarra (diplomato al conservatorio), ma è palese, su questo primo pezzo più che mai, la scarsa attenzione che è stata prestata a valorizzare le parti vocali: il testo, che vede strofe sia in italiano che in inglese, non sempre è comprensibile. “Rose Rovine e Amanti” è invece una bella ballata (che nel ritornello marziale richiama alla mente il Faber), impreziosita dalle incursioni alla voce di Noemi York e dal violino di Giuseppe Lorenzoni, collaboratori che troveremo nuovamente (insieme alla batteria di Daniele Befanucci ed al piano di Pietro Marinelli) nel corso dell'album, per il resto suonato ed interpretato dallo stesso Mercuri (oltre alla voce ed alla chitarra, anche al basso, alle tastiere, al mandolino ed alle percussioni a mano). La title-track (tutta in inglese) si apre con un passaggio mooolto Death in June e presenta i primi ruggiti elettrici dell'album: solida la base percussiva, incalzante il violino, un insieme di cose che nel frangente ricorda non poco il folk/rock targato Sieben.
“Il Grande Tradimento” si apre con una citazione al grande maestro Leonard Cohen (il cui spirito aleggerà un po' per tutta la durata dell'album), altra ballata acustica, nella quale torna a far capolino l'elettricità: l'accostamento “credo cristiano/rock” mi puzza tuttavia troppo di boy-scout, un'impressione, questa, che se non domata rischia di pregiudicare la valutazione dell'intero lavoro, dato che su tale binomio vengono costruiti molti dei brani che seguiranno. “From Desperation to Victory” sembra pescata da “Armageddon Gigolò” degli Spiritual Front e con le sue suggestioni western, con i suoi acidi contrappunti elettrici, è il miglior esempio di come la musica di Rose Rovine e Amanti si sappia rinnovare abbracciando nuovi stilemi. “The End of this World” prosegue sulla stessa lunghezza d'onda: fraseggi spezzati di chitarra, jam session da bettola, sghignazzate nel sottofondo, testi che tuttavia continuano a non convincere (questa volta nel mirino c’è il Potere, attaccato nella sua ipocrisia, stilettata da cui non si salva nemmeno la Chiesa stessa).
I testi, dunque. Un susseguirsi di slogan e luoghi comuni, immagini abusate e ben presenti nell’immaginario collettivo, retorica anti-sistema mischiate ad invettive da parrocchia irridente: ecco cosa offrono i testi di questo album. Senso del Sacro: dov’è il senso del Sacro? Non vi è una frase una che sappia darmi un'emozione, una scossa, una locuzione che odori un minimo di trascendenza. Etica, infine: ma dico io (parere strettamente personale), è mai possibile che sia necessario, a tutti i costi, avere una Fede – una fede già canonizzata, per giunta – per non rubare, ammazzare, tradire e mentire, e per reggere una condotta che eticamente sia almeno dignitosa?
Torniamo quindi alla musica: “Paura del Demonio”, il brano più potente dell’album, nella seconda metà si veste di metal, per l'impiego di chitarre elettriche (bell’assolo, fra l’altro), per l’incalzare della batteria, per le voci impostate che hanno un ché di dark/progressive nostrano, ma probabilmente l'effetto è involontario. “Mille Serpi” offre la prestazione vocale più teatrale di Mercuri, e a volergli bene potremmo dire che egli ricorda vagamente David Tibet nei momenti di maggiore enfasi: meglio qua che altrove, del resto, e il brano tutto sommato qualche sussulto lo regala. “Noi Ritorneremo”, con un bel violino sugli scudi, è un'altra ballata che non si eleva al di sopra della media, mentre la chiusura viene affidata ad “Ave Maria”, che tira in ballo niente meno che la Madonna. Non altro che un santino, aggiungo io: di senso del Sacro, come si diceva, nemmeno l'ombra. Al di là del fatto che parole come Maria e Giuseppe, Cristo e il Padre Onnipotente, stanno bene in bocca solo a De André; e che De André stesso rimane ad oggi il titolare dell’unico brano di folk apocalittico partorito in terra italiana (“Fragile Amico”).
Potrà anche piacere a qualcuno questo "Demian", si apprezzeranno senz'altro l'onestà, la libertà di movimento che l'artista ritrova nel medium espressivo del folk apocalittico, ma gridare al miracolo è decisamente fuori luogo. Poteva essere Mercuri uno fra i tanti cantautori da quattro soldi di questo paese, ma il Nostro sceglie la nicchia: ma l'onestà, l'abnegazione, l'ambizione, i buoni propositi, senza un reale spessore intellettuale, spirituale, artistico, evidentemente non bastano ad elevare i Rose Rovine e Amanti al di fuori dei ranghi della mediocrità. A meno che, ovviamente, si voglia a tutti i costi ricercare un campione del folk apocalittico nel nostro paese.
Che è un paese per vecchi. E che di sicuro non è un paese per il folk apocalittico.
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