“Ma chi diavolo è Rover?!?”
“E' il nuovo Napoleone del pop.”
Questo è stato il botta-e-risposta by sms che è sopraggiunto nel momento in cui ho scartato sbigottito il mio regalo di Natale.
Prima traccia: Beatles; seconda traccia: Interpol; terza traccia: Muse/U2; quarta traccia: Bowie. Ok, fermiamoci un attimo, questo ascolto non ha senso, bisogna prima capire cosa diavolo è questo album, perché mi è stato regalato, perché è finito mio malgrado a far parte della mia sceltissima collezione. Leggo recensioni, vedo che questo Rover si è persino piazzato in posizioni dignitose in diverse poll di fine anno. Mi sono forse perso qualcosa? Che Rover sia in realtà l'hype del momento?
Quello di cui scrivo è il debutto discografico di tale Timothée Regnier, un personaggio non proprio semplice da capire: trentatre anni, francese, si dice che abbia trascorso l'infanzia a New York, che sia stato compagno di scuola di membri degli Strokes, che abbia cantato punk-rock in Libano, da dove poi è stato espulso e rispedito in Francia. E che abbia scelto il nome d'arte assecondando la sua passione per le auto inglesi. Quel che posso vedere con i miei occhi è che di certo non è una bellezza, che nonostante qualche chilo di troppo si veste come un damerino di inizio novecento; che si fa ritrarre in pose plastiche da giovane Werther de' noantri, espressione da bel tenebroso, irto su scogliere, annaspante nell'acqua increspata di un gelido lago; che ha una ghigna ed una stazza che ricordano un improbabile miscuglio fra Gerard Depardieu, Antony e Meat Loaf. Insomma, ce ne sono di motivi per non ritenere un personaggio credibile questo Timothée Regnier, eppure....
Eppure, se è vero che ci sono dischi/artisti scialbi che ci facciamo piacere perché è figo ascoltarli, perché se ne parla bene, o perché non se ne parla, o perché le premesse all'ascolto sono decisamente buone (perché ci suona Tizio, perché ci collabora Caio, perché Sempronio ha detto che vale la pena), è altrettanto vero che ci sono dischi/artisti che finiscono per piacerti anche se sulla carta non gli daresti una lira, e Rover è senz'altro uno di questi. Le premesse che infatti stanno dietro al debutto discografico di questo signor nessuno sono tutte deleterie, a partire dalla proposta musicale: orecchiabilità ammiccante, un'esasperazione emotiva decisamente artefatta, un decadentismo sicuramente retrò. A Regnier piacciono i Beatles e piace anche David Bowie, non ne fa certo un segreto Regnier, e di certo non gliene possiamo fare una colpa, ma la domanda è un'altra: ce n'era bisogno? Dico: nel 2012, ce n'era davvero bisogno? Eppure....
Eppure, come è già stato detto da altre autorevoli voci (e io son qui semplicemente a ribadirlo), nel primo LP di Rover i pregi superano i difetti, e nonostante i difetti ci inducano a catalogare in un nano-secondo il prodotto come qualcosa di trascurabile in un mercato discografico afflitto e fiaccato da robetta insipida e riscaldata, il nostro giudizio non sarà invero così malevolo. Anzi, riascoltandolo, mentre ancora staremo meditando se è il caso di dare o meno peso ai pregiudizi legati all'anacronismo della proposta e al modo ridicolo con cui si pone l'artista, per noi sarà oramai troppo tardi, e dovremo infine ammettere che il cd in questione gira nel nostro lettore con più frequenza di molti altri lavori di cui potremmo magari andare più orgogliosi nella fiera della vanità di cui facciamo parte.
Anzitutto Regnier è un musicista: si accolla non solo la scrittura delle sue composizioni, ma l'intero lavoro in sede di esecuzione, suonando (e bene) tutti gli strumenti. Sicuramente un ringraziamento va a chi si è trovato dietro al mixer, perché il sound è ottimo, ma gli arrangiamenti (diamo a Cesare quel che è di Cesare) rimangono più che buoni per chi si trova al proprio debutto discografico e si carica sulle spalle un po' tutto il peso della baracca, senza poter contare su provvidenziali session forniti dalla casa discografica, o meglio ancora sulla lucidità di fidati compagni di ventura.
Ripartiamo quindi da capo. L'opener “Aqualast” può sì inizialmente apparirci leziosa e ruffiana nelle sue ambientazioni sfacciatamente Beatles (e basta, dai!), eppure porta in sé un qualcosa che non ci rende l'ascolto una esperienza necessariamente fastidiosa, e già lungo il suo corso è in grado di svelare l'asso della manica di Regnier, ossia una bella voce, versatile, potente, capace di passare da un timbro caldo e suadente, a ruggiti da camaleonte del rock, senza risparmiarci un poderoso falsetto.
Già, il falsetto di Reigner: non ho mai amato particolarmente chi abusa di questa tecnica, e ritengo che pochi se lo possano davvero permettere senza alla lunga stancare, eppure Reigner, il non di certo umile Reigner, l'arrogante ed antipatico Reigner, non ci lesina certamente il suo straziante falsetto, che guarda caso spunta nei momenti di maggior pathos dei brani, mai risultando veramente fuori luogo, conferendo alla musica un'epicità che sicuramente gradiranno gli appassionati del rock più struggente e teatrale. “Remember” cambia bruscamente registro: è un'incalzante base elettronica ad aprire il pezzo, che in nemmeno tre minuti tratteggia una cavalcata degna dei grandi nomi del revivalismo new-wave dei nostri giorni (Interpol, Editors ecc.). Ritmi fra New Order e Kraftwerk proseguono in “Tonight” che sostanzialmente costituisce la naturale continuazione del brano precedente, con tanto di chitarre in delay à la The Edge. Ma ecco che quando ti sembra finalmente di capire dove possa andare a parare il disco, tutto cambia nuovamente: “Queen of the Fools” è una titanica ballata che richiama in primo luogo (ancora una volta) il Duca Bianco degli anni d'oro. Era chiaro che si sarebbe trattato di un'opera di riciclaggio, ma Regnier si muove con una tale sfrontatezza che finisce per convincere.
Sono le canzoni, del resto, che convincono. Prendiamo per esempio “Wedding Bells”: non è la canzone più semplice del mondo? Suoni pacati, quasi da piano-bar, romanticismo esasperato à la Gainbourg (unico riferimento transalpino, oltre a certe soluzioni dal retrogusto vintage che richiamano da vicino i connazionali Air, in un album che puzza di anglosassone dall'inizio alla fine), un utilizzo fantasioso del basso (a dimostrazione di come il Nostro abbia voluto conferire spessore al più insignificante dei dettagli) ne fanno l'ennesimo episodio piacevole, come se il Nostro si ostinasse con tenacia a voler dribblare ogni possibile stroncatura da parte di chiunque si presenti sul suo cammino.
Il delicato folk di “Lou”, il pop squisitamente melodico di “Silver” (ancora Muse, con i quali il Nostro condivide un approccio barocco e spudoratamente sentimentale nel maneggiare la propria materia emotiva – ma senza assumere ipocriti contorni generazionali) e di “Champagne” (ancora Beatles, e, perché no?, con quel pizzico di Peter Gabriel che evoca i Genesis più mielosi): resta il fatto che, nostro malgrado, il disco scorre che è una bellezza e senza particolari punti di cedimento (salvo un po' di stanchezza all'inizio della sua seconda parte): lo aspettiamo al varco, Regnier, pronti ad ogni angolo a bacchettarlo con un “già sentito!”, ma la verità è che proprio non ce la facciamo a stroncarlo in modo categorico.
Vorremmo farlo con le sonorità leziose che aprono “Carry On”, ma ecco che il Nostro si salva in corner con un sublime, tragico, inverosimile ritornello (a Reigner manca evidentemente il senso della misura, ma nel suo caso tale lacuna costituisce un punto di forza), ritornello che risolleva immediatamente le sorti dell'ascolto, preparando ad un finale di album di tutto rispetto, grazie ad una accoppiata di brani che insieme costituiscono l'apice emotivo dell'opera: la disperata “Late Night Love” e soprattutto la potente “Full of Grace”, che sfodera al suo interno, oltre ad una prestazione vocale come sempre esagerata in ogni sua mossa, portentosi chitarroni che a questo punto non ci saremmo aspettati e che sicuramente costituiscono una gradevole sorpresa. E persino nella tremenda ghost-song, una ballata acustica infestata dallo sbraitare baritonale sempre e comunque sopra le righe, non troveremo argomentazioni sufficienti per cassare definitivamente il nostro eroe, nonostante la tragedia spesso si approssimi pericolosamente alla farsa.
Reigner ci è e ci fa, ma è difficile negare una ragion d'essere al suo operato: lo dimenticheremo in fretta, il nuovo Napoleone del pop, ma con la consapevolezza che si tratterà solo ed esclusivamente di una questione di marketing.
Elenco e tracce
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