In ogni campo della scienza e dell’arte, la tecnica è il risultato di applicazione, costanza e forza di volontà. Sono in tanti i musicisti (spesso nel metal, ma anche altrove) che, tra i loro numeri, prediligono lo sfoggio delle proprie conoscenze. Si ha spesso l’impressione che questi preziosismi siano sbattuti in faccia, quasi a volersi rivalere sulle orecchie dei propri ascoltatori degli sforzi patiti in lunghi anni di lavoro. I Rush invece, furono (e sono) una progressive band dalle notevoli capacità, dedita alla costante ricerca del bello. E considerando coloro che oggi si professano figliocci artistici di Neil Peart e compagni (chi ha detto Portnoy?), la suddetta, appare quasi come un’affermazione ironica. Questo “Hemispheres”, assieme ad un’altra manciata di album anch’essi recensiti, spiega al meglio l’importanza di questa band, mai veramente celebrata come avrebbe meritato. E perché Geddy Lee, basso e voce dalle tonalità particolarissime, rappresenta un fulgido esempio di talento ben espresso nelle forme della propria personalità. E perchè il succitato Peart, all’interno della band, non si limitò mai recitare il semplice ruolo di batterista virtuoso, arrangiando e scrivendo più ancora degli altri. Come i loro autori, anche i brani di quest’album appartengono ad un rango superiore.

Mi prenderò la licenza di partire dalla fine, menzionando uno dei pochi (e tuttavia splendidi) episodi in cui i nostri si concedono anche alcuni momenti di autocompiacimento: “La Villa Strangiato”, autentico sigillo sulla carriera della band. Si ha l’impressione d’ accostare l’orecchio sull’ipotetica colonna sonora di un’intera esistenza. Dieci brevi minuti in cui, con ricercata armonia, viene toccata tutta la possibile gamma delle sensazioni di chi ascolta: tutta la passione del crescendo d’apertura, conduce alle utopie del successivo ed arioso stacco melodico. C’incalza un grandioso ed arrogante solo, fino all’esplosione jazz del finale. Apre quest’ opera rock un’ altra suite, “Cignus X”, che rinverdisce i fasti di “2112” (1974), proseguendo il percorsoiniziato nella song del precedente “A Farewell To King” (1977). Nonostante la lunghezza del pezzo (diciotto minuti e rotti), i voli pindarici che la band ci regala, passando da un registro all’altro senza mai strafare, non ci consentono neanche un momento di noia. Segnalo infine “Circumstances”. Soprattutto sui ritornelli della song, Geddy Lee regala vocalizzi di notevole fattura. La capacità dei Rush è tutta racchiusa nelle note di questi "Emisferi".

Un sound, il loro, accessibile a tutti, ma basato sulle particolarità. Ci affascinano, pur riuscendo a conciliare le istanze del pubblico “musicalmente più preparato”. Chissà perché poi, spesso, a sottovalutarli furono proprio i colti...

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