C'è un'America che amo e allo stesso tempo odio, un po' come Peter Fonda che in "Easy Rider", strafatto e abbracciato alla statua nel cimitero, farfuglia: " Come hai potuto farti odiare tanto...... non mi hai mai amato ... fa che io ti ami ...quanto ti odio ...Io ti amavo ... e tu sei così stupida mamma!". E' l'America il cui "progresso civile" sta nell'automobile che schiaccia il vecchio cowboy Cable Hougue nel film di Sam Peckinpah, nella polvere della frontiera che avvolge la vita dei giovani John Grady e Rawlin nel romanzo di Cormac McCarthy, nei destini incrociati e maledetti di Pancho e Lefty nella ballata di Townes Van Zandt.

Adesso è anche un po' l'America di questo ragazzo, Ryan Bingham, che non riesce a nascondere i suoi venticinque anni nonostante la voce arrochita dalle notti trascorse a dormire nell'umido della roulotte di famiglia al seguito dei rodei in lungo e in largo il Texas. Il juke box nel bar dello zio gli aveva fornito la "materia prima" per ispirarsi nelle notti trascorse con la chitarra appesa al collo e la sua bravura gli valse un ingaggio per i fine settimana in una ballroom di Stephenville.

Ed eccolo qua Ryan, senza nessuna ruffianeria come purtroppo l'omonimo Adams, vestito con gli stessi sdruciti jeans di Willie Nelson e di Billy Joe Shaver e che per il suo esordio sulla lunga distanza scomoda personaggi del calibro di Terry Allen e Joe Ely, che sono garanzia di assoluta autenticità.

La produzione di Marc Ford, già chitarrista dei Black Crowes, assicura quella modernità che tanto fa piacere a noi ascoltatori che non abbiamo mai frequentato rodei o roadhouse e sogniamo ad occhi aperti un bivacco lungo le rive del fiume. Basta il primo brano per innamorarsi del disco e l'armonica in apertura di "Southside of Heaven" lascia il posto a una ballata che richiama il nostro eroe Steve Earle con tanto di mandolini e banjo che sembrano non aver voglia di lavorare fino allo splendido finale in progressione sonora. Ancora non basta, perché la slide di Marc Ford insiste a declinare accenti southern in "The Other Side" e in "Bread and Water" dove i fantasmi degli allievi del professor Skynyrd danzano avvolti nella vecchia bandiera confederata. La struggente calma acustica di "Don't wait for me " e "Long way from Georgia", con la bella voce in primo piano, non debbono ingannare: Ryan con "Hard times", dove la scura slide di Ford è ancora in evidenza, e soprattutto con "Take it easy Mama" mette giù il vecchio lercio rock and roll che gli Stones dispensano a piene mani da decenni e con "Boracho Station " è pericolosamente vicino al Mark Lanegan ubriacone che ha passato il confine del Rio Grande. E in "Ghost of Travelin' Jones" rende omaggio alle grandi ballate country del maestro Terry Allen che gli fa l'onore di intervenire con la sua voce ad ammonire che non bisogna mai vergognarsi delle proprie origini.

Così Ryan non si vergogna di intitolare e cantare rabbiosamente una canzone "For What it's Worth" proprio come avevano fatto i Buffalo Springfield quarant'anni prima, quando quell'America sembrava poter essere madre benevola di tutti i captain America e i Billy che solcavano le sue strade a bordo di un chopper, una roulotte o un pullmino Volkswagen colorato come quello dei Merry Pranksters.

E allora non è per vergogna che in copertina Ryan Bingham nasconde la sua faccia sotto il cappello da cow boy, ma soltanto perché non ha importanza metterla in mostra, potrebbe essere quella di uno dei magnifici perdenti come Cable Hougue o John Grady, di Pancho o di Lefty, e sarebbe la stessa cosa.

Carico i commenti... con calma