Anche quando sembrano parlare della vita, e dei vivi, pochi libri ci descrivono la Morte, e la sua immanenza, meglio de "Il giorno del giudizio" di Salvatore Satta (1902-1975).

Sarà, forse, perché questo libro è, a propria volta, opera di un morto egli stesso: morto non solo nel senso, lapalissiano, di non esserci più da oltre un trentennio, ma nel senso di non essere mai stato scrittore di professione, di non aver mai voluto pubblicare questo testo finché era in vita, conservandolo, con ogni probabilità, come personale reliquia di un passato che doveva restare isolato nell'intimità del suo protagonista, senza offuscarne o alternarne l'immagine di studioso di diritto processuale civile, materia di cui fu cattedratico in varie Università italiane.

Quale che fosse l'effettiva volontà di Satta, è tuttavia un bene che il libro sia stato pubblicato, in origine nel 1977 da una casa editrice specializzata in pubblicazioni giuridiche e, successivamente, da un editore più noto, che ha contribuito ad elevare l'opera dell'autore a piccolo culto, diffuso e tradotto in mezzo mondo.

Il libro ci narra, in maniera rapsodica, carica di ellissi narrative, la storia di una piccola cittadina sarda all'inizio del ‘900 - una Nuoro provinciale, discosta e periferica, che aveva in Sassari il suo capoluogo e riferimento culturale - ed attraverso essa, le piccole storie dei suoi abitanti, su tutti quella della famiglia Sanna-Carboni, guidata dal patriarca, il notaio Sebastiano, che governa sulla moglie Vincenza e sui propri figli in modo anafettivo, distante, in cui ogni individuo non sembra contare in quanto tale, ma in quanto piccolo tassello delle generazioni che l'hanno preceduto e che lo seguiranno.

La rappresentazione di questa corona di persone, variamente legate alla famiglia Sanna-Carboni ed al contesto sociale in cui essa era inserita, fa sì che il libro non abbia un vero protagonista, e sia privo di un intreccio e di un reale centro narrativo, giovandosi di una serie di passaggi che rendono la trama movimentata e frammentaria, pur se imperniata sulla comune suggestione della vanità della vita, e delle vite dei singoli personaggi su cui si sofferma l'autore.

Lo stesso narratore non può definirsi né come un personaggio onnisciente che domina e razionalizza la scena, a posteriori, né come un semplice estensore di memorie e meditazioni, fermi restando gli evidenti richiami biografici alla famiglia Sanna/Satta: la sensazione che dà la lettura del libro, anche considerandone la genesi e le modalità di pubblicazione, è che a parlarci di un'esperienza conclusa, di una realtà finita e sepolta, sia uno dei suoi protagonisti, la cui voce ci giunge, quasi come un'eco, dal Nulla, lasciandoci una testimonianza, ed assieme, un monito.

In particolare, proprio la distanza temporale che separa la stesura del libro e la narrazione dai fatti dal concreto svolgersi degli eventi fa sì che la ricostruzione di Nuoro e dei suoi abitanti, la descrizione dei singoli personaggi, non sia filtrata da una dimensione elegiaca, o consolatoria, di un mondo rurale ed antico che non c'è più, e nemmeno dal rimpianto di un qualcosa che non può tornare, quanto, piuttosto, dalla coscienza, e quasi certamente dalla sorda paura, che tutto quanto è stato rechi, al contempo, la traccia del Finito e dell'Infinito, in un dissidio tale da aprire un abisso nell'anima di ognuno.

"Finito", il tutto, proprio perché ormai sepolto dalla polvere e dalla terra che copre le tombe dei protagonisti, e coprirà le spoglie dello stesso autore, facendo sì che si tratti una esperienza conclusa, rispetto alla quale nulla è possibile dire, nulla è dicibile, se non attraverso quel lungo epitaffio che, nella sostanza, è il libro.

Lo scrittore, pur senza farsi biografo, fa suo il peso della ineluttabilità dei destini dei singoli personaggi, rinunciando a imbellettare le loro salme, le loro vite, in una dimensione ora onirica, ora fantasiosa: siamo dunque all'opposto sia di certo verismo italiano, in cui l'adesione al vero passava attraverso la astrazione della persona storica e la creazione di personaggi simbolo ed epitome di un modo di pensare e di essere (da Verga a Tomasi di Lampedusa), sia di un libero flusso di pensiero europeizzante in cui la dimensione personale del ricordo si mescola a temi universali, facendo diventare a propria volta i personaggi delle ombre del protagonista, degli strumenti di autonalisi o confessione (Svevo, Buzzati).

"Infinito", il tutto, perché le vite, e le morti, dei personaggi, il loro oblio a stento arginato dall'Autore consapevole dell'inutilità stessa della sua narrazione, sembrano sfumare gradualmente di fronte all'incessante succedersi delle generazioni, dei tempi nuovi, perdendosi nell'immensità del Tempo che l'uomo non può nemmeno tentare di cogliere, risultando al contempo espressive, nei singoli individuali dolori e nelle intime sofferenze di ciascuno, dell'angoscia interiore di ognuno rispetto al mistero della Vita (vissuta, non vissuta, semplicemente accettata) ed alla certezza della sua Fine, che al contempo segna l'inizio di un Tempo eterno in cui le singole esperienze, speranze ed angosce saranno annullate.

Si tratta, dunque di un Infinito privo di quella dimensione romantica e sublime tipica di certa poesia ottocentesca (penso a Leopardi), in quanto la consapevolezza dell'infinità e dell'indeterminato non vengono elaborati e superati dalla sintesi e dall'intuizione poetica, ma sono, piuttosto, il segno di uno smarrimento e della impossibilità di dare un senso alla esistenza, nel momento in cui, postulando la infinitezza, perde senso l'individuo, e tutti i sensi sono possibili, finché non si compirà un "Giudizio" universale: i cui esiti sono in conoscibili per l'individuo come lo è lo stesso Dio in cui si crede, senza conoscerlo. E' forse uno smarrimento che ricorda il primo Montale, e non è probabilmente errato un parallelo fra il ruvido paesaggio isolano descritto in questo libro e certa inospitale liguria montaliana; sebbene lo smarrimento sia reso più profondo dalla senilità e vecchiaia di chi scriveva, più ricco d'esperienze del giovane autore degli "Ossi di Seppia", e dal fatto che lo scrittore sia un uomo di fede (e non un ateo) che non tuttavia non sembra credere nelle finte certezze di certa religiosità, cogliendo anzi l'aspetto inconoscibile, della Creazione e del Giudizio finale.

Un'opera universale, questa, quasi quanto il Giudizio cui allude il titolo, a torto ritenuta, da alcuni, un ottimo prodotto di letteratura a sfondo regionale o come il frutto, valido ma trascurabile, del passatempo di un vecchio professore.

Sebbene sottovalutare quest'opera, relegandola a puro accidente letterario in una infinta biblioteca, ne inveri il significato profondo e devastante.

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