Ieri notte si è manifestata in me la voglia di rivedere il film "American Beauty", un'esigenza scaturita forse dall'aver visto poco prima un altro simpatico film dal titolo "Imogene", nel cui cast c'era Annette Bening, una non mia favorita attrice: ma ora ho cambiato parere!
Tuttavia è stata lei ad aprire una voragine nell'animo e a farmici cadere dentro.
In effetti in "Imogene" la sua non è una parte primaria, ma esegue da grande professionista il suo ruolo, caratterizzandolo alla perfezione.

Chissà nel concreto a cosa sottostanno certe esigenze dello spirito: le concatenazioni della casualità paiono davvero scritte in un libro delle percezioni che a volte si palesano dettando le scelte, scambiate per istinto, motivanti la nostra vita, appunto spirituale e percettiva, ricolmando quel vuoto venutosi a creare ed ampliatosi a nostra completa insaputa.

"American Beauty" è opera del 1999, sebbene lo vidi alcuni anni dopo.
Ricordo però il successo mediatico che ebbe e l'enorme risonanza riservata alla colonna sonora, che suonava molto innovativa.
In effetti, pur non sapendo nel concreto di cosa parlasse il movie, questo mi risutava a pelle come una sorta di punto di non ritorno, uno spartiacque che ci avrebbe traghettato nel nuovo millennio, la chiave che avrebbe permesso il passaggio verso una nuova era.
Conteneva, quasi fosse apportatore di un rinnovamento epocale, una inarrestabile valenza di modernità. La separazione tra passato e futuro.

E questo pensiero è continuato a sembrarmi esatto durante la visione di questa notte. Aderivo ad una sensazione d'irreversibilità.
Ogni immagine del film è infatti tesa, nella sua immobilità, a una tensione irrisolvibile da estinguere attraverso la spaccatura, tramite il crash delle cattive abitudini, del suo oppressivo involucro; dopodiché, rotto il guscio, e facile adagiarsi sulle ali della sostenibile leggerezza dell'essere - gettare la zavorra!


La storia ruota non solo attorno alle vicende dei personaggi, ma anche su di sé, cercando una svolta, una soddisfazione, un senso.
Ogni personaggio sostiene e porta avanti la propria teoria di vita indossando una maschera e così bardato va alla ricerca di una vagheggiata soddisfazione, una meta agognata dispensatrice di felicità da raggiungere, posto verso cui tendere assecondando una naturale inclinazione umana.

La telecamera di Ricky Fitts (Wes Bentley) è il filtro usato per riconoscersi, raccontarsi, ma anche per ricongiungersi a qualcosa che sfugge alla routine delle cose. Lo strumento video si fa punto fermo di quel continuo ruotare, o meglio, di quel contorcersi con afflizione su sé stessi. Essendo i personaggi del film oggettivamente preda ed ostaggio di una proiezione che da tempo immemore (già, fin da quando?) ha innescato quel gioco assurdo di finzioni dietro cui barricarsi, soffrendo molto, e che invece, se si cogliesse l'intuizione di spostarsi poco più in là, ci si scoprirebbe capaci di intravedere un altro e molto più importante (riequilibrante) punto di vista da apporre su quelle trite cose ormai davvero prive di un valore intrinseco, cambiando nettamente e irrealmente la prospettiva.

L'apparente tranquillità del quartiere composto di villini con giardino, luogo da cui si origina la storia, probabile zona residenziale di una cittadina, è giusto il contenitore dispersivo, ordinato e borghese, ripieno del caos delle vite di ciascun personaggio, incastrato temporalmente agli albori del nuovo millennio, entro cui qualche scricchiolio, diciamo forte scossone, è rinvenibile ed udibile nella pace provinciale di quella società americana frutto di un benessere orientato al declino, presa in mezzo dalla marcia degli eserciti della rivoluzione digitale e della crisi economico-finanziaria, testimone finanche del cambiamento d'identità promosso dalla globalizzazione.

Il punto di sfaldamento, di crollo, di stop, dà il via al recupero di sè stessi, avviando una riabilitazione psicologica traumatica perché d'impatto, drammatica, ma non per questo colpevole e maledetta, anzi, tutto il contrario.
L'infrangersi delle vite, prima arroccate dietro un invisibile schermo colpito al tallone di Achille da qualcosa che gironzolava desolatamente e da tempo nell'aria, permette alla regia di Sam Mendes di osservarne la disgregazione corpuscolare posta al vaglio del fatidico giro di boa, risolvendo proprio in quel determinato momento le deturpanti tensioni, scrostandosi pure di dosso quella patina di vuotezza che consumava i nervi e lo spirito sotto l'apparente tranquillità dell'irrisolto.

Fingere d'essere un altra persona per sopravvivere, indossare una maschera fuorviante psicopatologica, non ribellarsi mai allo schema sociale, continuare a recitare una parte indesiderata sul palco sociale, nel privato della famiglia, a lavoro, a scuola, con gli amici, ripetendo costantemente dentro sé il silenzioso mantra 'le cose devono continuare ad andare così' per resistere e non disintegrare quella maschera, ha generato un indebolimento intellettuale debilitante e opacizzante dei sensi. Seguire ciecamente le convenzioni ha smarrito il 'perché seguiamo queste convenzioni?'. La frittata si è capovolta.

Il film resta efficacemente rivoluzionario e rigustralo dopo oltre tre lustri conduce a riscoprire qualcosa di positivo che ci riguarda da vicino e che potrebbe essere rimasto sepolto nelle nostre profondità, come uno scrigno prezioso riportsto alla luce.
Altresì è promotore di un filone memorabile di riflessione cinematografica che svanirà e annacquerà tali rilevanti specifiche negli anni a seguire, quelli del confronto con le sfide future introdotte dall'ingresso nel nuovo millennio (un periodo che rappresenterà il mondo nella sua fase adolescente, figlio di internet e del consumismo selvaggio, al tempo della crisi), riportando massicciamente in auge quei valori dell'effimero afferenti all'essere, vieppiù ispessiti dalla cortina sociale fautrice dell'apparenza e della deriva spirituale, sottostando però, questa volta, al dilagante e ancor più ottuso (mostruoso) conservatorismo e a quello sbando - il minimo comune denominatore di moltissime vite - proprio dell'ignoranza e della miseria umana che ha caratterizzato fortissimamente tutto il pedante decennio 2000-10.

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Altre recensioni

Di  donjunio

 "Paradigma di un cinema che mette in scena un abusato e ormai manierato declino social-borghese per ovviare al proprio vuoto estetico e culturale."

 "Davvero tutto qui? Questi sono problemi piccolo borghesi con soluzioni piccolo borghesi, egoiste, meschine, e non basta un tocco di perversione per épater les bourgeois."


Di  ilpanes

 La decisione di usare una fotografia nitida e perfetta non è superficialità, ma un modo per sottolineare quanto la realtà possa essere diversa da ciò che sembra.

 Talvolta la vera bellezza è più accomunabile all'imperfezione della prima scena che allo splendore visivo successivo.