A parlare dei Samael si finisce sempre col dilungarsi troppo, e questa recensione non farà eccezione. Il motivo è molto semplice: descrivere un loro album senza tenere conto dell’intero percorso evolutivo che lo precede è un’assurdità. Come si fa a capire (ancora prima di descrivere) un “Passage” senza considerare un “Ceremony of Opposites”, e come si fa a parlare di “Reign of Light” prescindendo da “Eternal”? Per un estimatore di questo gruppo verrebbe quantomeno spontaneo allacciare gli album fra loro, come se fossero un unico disegno; e, d’altra parte, sapersi reinventare incastonando alla perfezione le idee passo dopo passo è da sempre stata la qualità dei Samael.

O quasi.

In effetti è stato così almeno fino alla formidabile doppietta “Eternal”-“Reign of Light”, rispettivamente 1999 e 2004: proprio questi segnarono il passo più lungo e coraggioso (seppur non il migliore) della band, proiettandola nei territori impervi (e cafoni) dell’elettronica e delle contaminazioni industriali, sempre all’insegna di una certa orecchiabilità che, nelle giuste dosi, non guasta mai. Il loro orizzonte non era mai stato così limpido. Purtroppo però, per ragioni a noi ignote, le meraviglie si esaurirono presto. Qualcosa iniziò a non funzionare...

“Solar Soul” (2007), a mio avviso lungi dall’essere un brutto lavoro (ora come ora starei su un modico 3,5), sembrava non avere alcun obiettivo se non quello di riciclare la stessa materia già lavorata e consolidata egregiamente dai predecessori, difatti era la prima volta che i Samael non volgevano lo sguardo al futuro, al rinnovamento, com'erano soliti fare; eppure, coi suoi ritornelli potenti e il suo incedere marziale e groovy, “Solar Soul” suonava comunque irresistibile, inequivocabilmente Samael, il che mi spinse ancora una volta a confidare nel loro ingegno.

I dubbi però non tardarono a ripresentarsi e le speranze vennero letteralmente rase al suolo da quel muro di suono terrificante (purtroppo in senso negativo) che risponde al nome di “Above” (2009), tuttora un disco che nel migliore dei casi mi lascia spaesato. Ma che roba ci hanno propinato? Un cambiamento così radicale, forzato e mal riuscito non poteva che essere sintomo di una crisi di identità, ormai non più così latente: della serie, “siamo a corto di idee, non sappiamo più che pesci pigliare, perchè non facciamo un chiasso infernale e lo spacciamo per il classico tanto agognato ritorno alle origini così son tutti felici e contenti?”.

Sono passati solo due anni da quel capitombolo e già mi ritrovo tra le mani questo “Lux Mundi”. Non sapevo più cosa aspettarmi ma di sicuro, ascoltando in anteprima (e anche dal vivo) un brano come “Antigod”, l’intenzione dei Samael non era quella di rifare un altro “Above”: il ritmo severo e spietato, l’atmosfera orrorifica emanata dalle tastiere e la perfidia di Vorph al microfono, più bestiale ed iconoclasta che mai, non possono non riportare alla mente i fasti di “Passage”, finalmente tributato in maniera degna. Che brividi, ragazzi. Quasi da non crederci.

Peccato solo che “Lux Mundi” sappia regalare brividi esclusivamente in virtù dei richiami nostalgici alle sonorità passate, e questo non lo definirei proprio un pregio. “Lux Mundi” è semplicemente un altro disco dei Samael, nè più nè meno. Che poi sia più vicino a “Passage”, a “Solar Soul” o a “Eternal” poco importa: è un altro disco dei Samael che giocano a fare i Samael. Il mestiere è ormai di casa, e quello di “Lux Mundi” è un bel mestiere, non c’è che dire. Forse faccio la parte dell’incontentabile brontolone di turno, ma se ne sentiva davvero il bisogno? Alla band, in piena carestia di idee, probabilmente ha giovato fare un bel po’ di passi indietro. Sono felice per loro ma il risultato, pur non essendo affatto sgradevole (non quanto “Above” almeno!), resta quello che è.

Fondamentalmente con “Lux Mundi” la band rimaneggia con una certa destrezza (e familiarità) la medesima formula di “Solar Soul” e “Reign Of Light”, scaraventando il tutto nei buchi neri di “Passage”: avremo quindi a che fare coi soliti brani concisi e diretti, dal passo rallentato e marziale (decisamente efficace in sede live, va detto), stavolta però illuminati da una luce malata, amorfa, tipica del loro più celebre capolavoro. Insomma c’è in ballo un gran bel rimescolamento di carte che tuttavia in certi casi risulta ben riuscito: “Antigod”, “Luxferre”, “Soul Invictus” e soprattutto l’eccellente “In The Deep”, con quello sfondo tribaleggiante che tanto ricorda la siderale “Jupiterian Vibe”, si fanno ascoltare e riascoltare in loop.

Il resto dell’album si mantiene compattissimo ed omogeneo nella forma (come ogni altro disco dei Samael) ma assai altalenante nelle idee: in assenza di novità concrete da sbandierare all’ascoltatore, l’unico obiettivo per far presa è costituito da una ricerca quasi spasmodica del ritornello ficcante che purtroppo arriva solo occasionalmente, bruciando così buona parte dei brani in una teatralità statica e a lungo andare ridondante. “Of War” ne è un chiaro esempio: praticamente è la versione più oscura di “Ave!” (da “Solar Soul”), stesso ritmo ossessivo, stessi synth pomposi, stesso ritornello ringhiato, stessa voglia di premere skip dopo il primo chorus.

Gli interventi delle tastiere nella trascurabile “Pagan Trance” rasentano il kitsch, mentre “For A Thousand Years” parte alla grande ma finisce per sbrodolarsi in soluzioni totalmente anonime. Le tracce rimanenti sono senza infamia nè lode, e in ogni caso non fanno che puntare sul mero impatto piuttosto che sull’espressività, decisamente l’ospite sgradito di quest’album. E che dire della conclusiva “The Truth Is Marching On”? Dopo tre quarti d’ora lenti e trascinati, ecco che i Samael ci salutano beffardi con un brano sorprendentemente spedito e dinamico, manco a dirlo riuscitissimo; santiddio, ma dovevate svegliarvi/ci proprio adesso?!

Ancora una volta, quindi, il colpaccio non è riuscito. Nella sua interezza “Lux Mundi” potrà anche ricordare “Passage” per via degli arrangiamenti, ma quanto ad espressività (e freschezza di idee) siamo distanti un paio di parsec. A volte mi chiedo cosa sarebbe potuto succedere se i Samael avessero deciso di impastare tutte le buone idee che di certo non mancano a “Solar Soul”, “Above” e questo “Lux Mundi” in un unico album, anzichè diluire il tutto in più uscite nel giro di qualche anno. Probabilmente avremmo ottenuto il degno seguito della loro evoluzione, ma chi può dirlo? Ormai la frittata è fatta e quello che ci resta è una manciata di album da scremare per benino e una band che avrà anche perso di vista il proprio genio, ma di sicuro non la grinta. Nel frattempo, torno volentieri a visitare per la fantamilionesima volta un certo antico regno splendente.

3,5/5. Quel 0,5 è puramente affettivo.

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