Samuel Fuller è una di quelle tipiche figure del cinema nuovo hollywoodiano degli anni 50-60; un cinema "contro", polemico, che trattava di temi scabrosi e difficili, che voleva "mostare il verme sotto il sasso" direbbe David Lynch, ma anche qualcuno che faceva parte comunque dell'industria filmica americana, che faceva parte della società americana, e che a quella società dimostrava di appartenere anche quando la criticava aspramente.

Samuel Fuller era un tipico regista di genere, uno che scriveva da sè le storie e le girava anche con budget ridotti, uno che, come molti contestatari, ebbe a che fare con la "caccia alle streghe" contro i comunisti, ma in definitiva qualcuno che riuscì ad espimere, bene o male, le sue idee, e che dopo gli anni '60 divenne apprezzatissimo anche dai Cahiers du Cinema. "Shock Corridor" non è solo il film piu' riuscito di Fuller, è anche uno dei piu' bei film sulla pazzia e su come la pazzia sia legata alla storia, e alla vita delle persone in maniera indissolubile quanto perturbante.

Il protagonista del film, Johnny Barrett (Peter Breck) è un ambizioso giornalista che decide di scrivere un reportage sensazionale, riuscire a scoprire chi ha compiuto un feroce omicidio rimasto insoluto all'interno di un manicomio. Per fare questo, dovrà fingersi pazzo e farsi internare, in modo da indagare indisturbato in quel mondo totalmente chiuso all'esterno e risolvere l'omicidio. D'accordo con un medico e con la sua ragazza, si finge un maniaco sessuale, e dopo poco, viene ricoverato. Lo spettatore si trova quindi catapultato in mondo ovattato e irreale, dove tutto è illogico e confuso, e viene guidato dalla sola voce "interiore" del protagonista; Barrett cerca di mettersi in contatto con i possibili testimoni del delitto, di fatto allineandosi alla loro mente ottenbrata dall follia: conosce Stuart (James Best) ossessionato dalla guerra di Secessione; incontra Trent (Hari Rhodes) un nero che proclama la supremazia bianca e infine Pagliacci (Larry Trucker) un ex fisico nucleare impazzito dopo la costruzione della bomba a idrogeno, che sa comunicare solo attraverso disegni infantili.

I "pazzi" che Barrett incontra non rappresentano altro che i grandi lati oscuri dell'America: la guerra, il razzismo, la minaccia nucleare: la "pazzia" americana quello che Millighan e Bachalo avevano così ben incarnato visivamente nell'"Urlo americano" sulle pagine di Shade. Barrett non fa i conti con un'altra pazzia: la sua. L'ambizione, il desiderio di arrivare sempre piu' in alto, a poco a poco diventa il suo lato oscuro, e il protagonista ne sembra lentamente avvolto, come dalle tenebre. Se la trama (di cui è autore Fuller stesso) è già di per sè perturbante, la messa in scena è spesso sbalorditiva, per la scelta di "mostrare tutto" sia il vero che l'allucinazione, fino a fonderle in un'unica visione. Semplicemente incredibile la forza evocativa della scena in cui Trent si vede come un kapò del KKK, o le scene in cui Barrett rivede sempre piu' spesso la sua fidanzata, che gli balla accanto. Un grosso non detto è la sessuofobia della società, che si riversa nella società al contrario del manicomio: la ragazza di Barrett è una ballerina di streap tease, che seduce il protagonista nei sogni e lo fa ingelosire, il protagonista, perso nel manicomio, finisce nel "recinto" delle ninfomani, mentre un custode sorride sardonico facendo intuire altre cose. Perso nel delirio allucinatorio, Barrett risolve il delitto, ma rimane un fatto secondario oramai: deve cercare di salvare la sua mente ora.

E la sua anima: il direttore del manicomio si chiama, nientemeno, dott. Cristo.

Carico i commenti... con calma