C'è la Notte che se ne sta incappucciata al centro del buio, al pianoforte. Mostra un ghigno, dice Ti aspettavo, dà un paio di colpi, mi invita nello spazio che le avanza dove siede, mi avvicino. Sto al suo fianco ora, cosa vuoi farmi ascoltare, Notte?

Mi confonde questa tastiera, non li vedo i contorni dei tasti. Inizia tu, io sono qua che ti ascolto. Ora ci sono dieci pezzi d'ossa freddi come porcellana che sfiorano i tasselli bianchi e neri, e un volto chino sulla tastiera che si dondola avanti e indietro senza peso sulla melodia. Non è colpa mia, Notte. Ci ho provato a fissare il metronomo dei giorni, ma qualcosa si è inceppato, come un sasso tra la polvere di sabbia in una clessidra. Avevo bisogno di tornare qui per ascoltarti suonare. Lo chiamano motivo, in fondo. Che fai, Notte, ridi? Io dico seriamente. Non si vede, ma ho paura, anche ora che entra del freddo dai riverberi, come spifferi da una finestra.

Stavo facendo ritorno a casa quando mi sono fermata al Collegio di Ingegneria Emotiva. Erano in cinque sulla porta, venne avanti uno, Sorride e mi dà la mano. Ben Frost, dice. Sto ancora un po' qui con Daniel Rejmer, Sean Albers, Andrew Hazel, Russell Fawcus, che fai, resti?

Mi racconta che dall'Australia se n'è scappato in Islanda, a fare musica strana, mischiando ambient ed elettronica. Già questo basterebbe come storia, fischia un motivetto (è lo stesso della Notte!) e io mi lascio andare, richiudo gli occhi. Chissà chi è questa Sylvia e se anche lei è partita con te. Strana terra l'Islanda, te la sei scelta bene, e quanto somiglia a questa musica, che si regge su un minimalismo gelido, dove tutto è misurato, e riesce a cullarti senza mai eccedere. La possibilità di trovare un posto che sia rifugio, quando ci si sente persi, o soli, lontani per un'oretta scarsa in una terra dove fuoco e ghiaccio convivono.

Ora ricordo cosa dovevo dire, ma apro gli occhi e la Notte non c'è più.

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