Sembra che non vi sia più niente: la superficie terrestre è una distesa di macerie, ruderi di antiche e nuove civiltà convivono nello stesso desolante panorama, grattacieli franati e deserti giacciono accanto ad archi e strade colonnate dell'antica Roma che sorgono sull'orlo dello sgretolamento, fra il gracchiare di corvi e il volo di avvoltoi che disegnano cerchi concentrici nel cielo denso di nubi, pronti ad avventarsi sulle ultime carcasse da sbranare. Nell'ultima casa ai confini del mondo, fra le pareti screpolate dall'azione del tempo, dall'abbandono e dalla dimenticanza, un uomo, l'ultimo uomo sulla terra, impugna la sua chitarra e dà sfogo all'ultimo briciolo di umanità.

Sembra che in queste condizioni Scott Kelly, voce e chitarra dei Neurosis, abbia dato alla luce (o meglio all'oscurità) il suo secondo lavoro solista, che segue di ben sette anni (siamo nel 2008) il suo primo lavoro “Spirit Bound Flesh”. E diviene inevitabile tracciare un paragone con l'opera del suo compagno di sventura Steve Von Till, che quasi contemporaneamente se ne usciva con il superbo “A Grave is a Grim Horse”. Così vicini, così lontani, i due alfieri della rivoluzione post-hardcore percorrono i loro percorsi paralleli, due binari che in pari modo sembrano voler fuggire dal caos e dal rumore della contemporaneità per svilupparsi in una dimensione strettamente intima e cantautoriale, nell'accezione più ermetica ed isolazionista che possiamo concepire.

Un percorso che in verità non sorprende più di tanto, se si pensa agli elementi folk-psichedelici che progressivamente hanno infestato la poetica neurosiana (si guardi, per esempio, ad un album come “A Sun that Never Sets”). Cosi vicini, così lontani si diceva, poiché, se è vero che nei fatti i due giungono alle stesse conclusioni, ancor più legittimo è scovare significative differenze nelle premesse. Laddove Von Till conserva la truce visionarietà, il mood apocalittico della band madre; laddove la sua musica, seppur scarna ed essenziale, punta molto all'atmosfera, circondandosi (seppur senza abusarne) delle meste orchestrazioni di archi, di tastiere, e sovente torna a rivestirsi di elettricità; laddove Von Till si erge a rassegnato testimone di un mondo sull'orlo dello sgretolamento, finendo per rifugiarsi in un passato incontaminato, atavico, indugiando talvolta sui solchi della tradizione cantautoriale americana, Scott Kelly preferisce sondare il profondo della propria interiorità, cantando, ricercando se stesso, attingendo dalla sua stessa umanità. Più puro, più bambino, più ingenuo del suo compare, con meno velleità nella testa, rivestito della sola sua stessa umanità. Un'Apocalisse che sgorga naturalmente dall'anima, prima ancora che dipinta tramite le ambiziose pennellate di un cantautore conscio della sua potenza espressiva.

Una voce ed una chitarra, chitarra e voce, sette ballate acustiche, trentaquattro minuti: questi i numeri di “The Wake”, che solo in un paio di episodi viene sporcato dalla posata elettricità di una chitarra slide (a cura di Frank Sullivan), mentre Daemon Kelly viene accreditato al basso, senza che il suo strumento scompagini le coordinate di un'opera che rimane lo sforzo sovrumano di un uomo e della sua chitarra. Un cavernicolo con il cuore di una farfalla: Scott Kelly edifica infiniti paesaggi interiori con la sola forza della sua chitarra acustica e della sua voce, un tremendo rantolo gutturale che lo avvicina al Mark Lanegan più nicotinizzato, forse al Michael Gira più greve e catacombale. Pochi altri i riferimenti per descrivere questo paradossale post-hardcore de-elettrificato, decisamente elementare da un punto di vista formale, ancora dominato dalle calate mastodontiche di arpeggioni che una volta venivano fagocitati da chitarre elettriche (ed in questo Kelly rimane maggiormente ancorato all'essenza neurotica, più di un Von Till che ambisce a re-inventarsi cantautore), semplice nella forma, si diceva, ma superlativo da un punto espressivo, tanto che ci viene da richiamare il fantasma del compianto Nick Drake, per quanto l'autore riesce a rendere il massimo con il minimo: ed in queste desolanti ballate c'è tutto lo spessore di un musicista che ha saputo cambiare le sorti della musica pesante, e che per un momento decide di staccare la spina del suo amplificatore e dare voce alla sua anima, nuda, spogliata da tutti gli alambicchi che la tecnologia ha nel tempo dato forma al suo talento.

Musica primitiva, quella dell'ultimo uomo della terra. A scapito delle atmosfere affossanti e sconsolate, il titolo dell'album tuttavia non tradisce: l'opera costituisce davvero un risveglio, il risveglio dell'umanità dopo che tutto è finito, dopo che tutto è stato spazzato via. Dopo la Fine, un nuovo Inizio: l'Umanità ricomincia dall'umanità, l'umanità che sta in fondo al cuore, l'impeto vitale che bussa sotto le macerie e la distruzione. E laddove Steve Von Till sembra cavalcare auto compiacente fra queste, Scott Kelly si rifugia nel silenzio, al buio dell'ultima casa ai confini del mondo, forse affacciata su una imponente scogliera dove la vastità dell'orizzonte delimita il cielo dal mare...seduto curvo su una decrepita sedia di legno e paglia, ad inseguire, ipnotizzato, le ombre striscianti sul muro scrostato.

Raramente mi è capitato di ascoltare un album così essenziale, eppure la noia non dimora in questa sorta di apocalittico “Pink Moon” del terzo millennio. L'opener “The Ladder in my Blood” anticipa ed esplicita le movenze di un viaggio che procederà senza grandi sorprese: arpeggi e note che indugiano, spaziano liberamente nel silenzio, si strappano sotto il peso di dita troppo grosse e secche per delle carezze; sotto il peso di una voce roca, strascicata, troppo brutale per sussurrare ninne-nanne, ma così espressiva e graffiante, espressione di un'anima che non cede alla disperazione, ma quasi trova serenità, liberazione nel potersi finalmente librare nell'aria senza la zavorra di un Nome divenuto forse troppo ingombrante anche per coloro che lo portano. Si distinguono, infine, soltanto l'epica cavalcata “Saturn's Eye” e la conclusiva “Remember Me”, sporcate entrambe da una avvolgente chitarra slide che ammanta di oscura epicità il canto di un cavaliere esausto che per questa volta preferisce lasciare le armi e il cavallo nella stalla.

Buon risveglio.

Elenco tracce e video

01   The Ladder in My Blood (04:46)

02   Figures (04:11)

03   Saturn's Eye (04:06)

04   The Searchers (06:32)

05   Catholic Blood (04:02)

06   In My World (04:41)

07   Remember Me (06:09)

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