“Per tutta la vita ho fatto brutti sogni” (Scott Walker).

Il sole della California è solo il ghigno dipinto di un clown che non sa far ridere per quel giovane nerd che si aggira accigliato tra le strade di Los Angeles, tutto vestito di nero e nascosto dai suoi perenni occhiali scuri, scivola con infastidito distacco tra i corpi abbronzati, i sorrisi salutisti, la gioia di vivere vacua, il giovanilismo ostentato che lo circonda.

Che ci fa lì, Il giovane Noel, nato Noel Scott Enderson a Hamilton, un buco nell’Ohio, da una madre capitata lì - non si sa come - dal Canada e da un padre con sangue tedesco nelle vene?

Che ci fa lì, il piccolo Noel che sogna l’Europa ed il cinema off ed invece è finito a fare il bambino prodigio in un paio di musical di Broadway e ad incidere qualche 45 giri a nome Scotty Engel?

La musica e la California gli sono capitati addosso per caso: si è bravo, suona la chitarra ed il basso e canta con “quella” voce. Ma a lui interessano il cinema e la letteratura.

E poi odia il pop, a lui piace il jazz, quello di gente come Stan Kenton e Bill Evans.

Che ci fai lì, Noel Scott Engels?

Non può essere la realtà, non va bene. Sembra solo un sogno. Un brutto sogno.

Svegliati.

Noel è a Londra ed è diventato Scott Walker. E Londra ha il colore giusto. Negli studi di Jack Nietzsche aveva incontrato John Maus, che cercava fortuna col nome d’arte di John Walker, i due provano a combinare qualcosa insieme, ma capiscono in fretta che lì non è aria per loro. Allora si tirano appresso Gary Leeds che suona la batteria ma che, soprattutto, ha un padre disposto a pagare per il loro viaggio in Inghilterra.

Si fanno chiamare Walker Brothers, i tre finti fratelli Walker.

Ed è un successo.

Un successo enorme. Da una parte e dall’altra dell’Oceano.

In America li scambiano per inglesi, finiscono nel calderone della “British Invasion”, il loro pop orchestrale e zuccherino sembra poter fare le scarpe anche a quei fighetti dei Beatles. Perché, alla fine, sono bravi i Walker Brothers, fanno canzoni che ti si appiccicano in testa, affogate in un mare di archi e, poi, su tutto “quella” voce.

E piacciono. Non sono belli ma piacciono e le riviste e la tv se li contendono.

E Noel?

Noel è li, ancora accigliato, nascosto dietro la maschera sorridente di Scott Walker.

Che ci fa lì, circondato da ragazzine adoranti? Che ci fa lì a sorridere sulle riviste patinate? Chi è quello che sculetta, ebete, dallo schermo della tv?

Non va bene, non puoi essere tu. Che ci fai li, Noel?

Svegliati.

E Scott li molla a quegli altri due! E fa bene! E poteva pure farlo prima!

Scott non è un vacuo belloccio con una bella voce calda, messo lì a solleticare la fantasie di ragazzine in preda agli ormoni dello sviluppo post-adolescenziale.

No, Scott è un artista, un artista vero. Sensibile e colto, intriso di umori mitteleuropei e di morbosa vitalità yankee.

Ed è pure un interprete coi controcazzi!

I suoi miti sono gli chansonnier francesi, Brel su tutti; ma tutta la canzone d’autore lo intriga: quel filo sottile steso tra letteratura e musica, tra la vita e la sua trasposizione mitica, tra sangue ed anima. Di suo ci mette cascate di archi ed echi di folk asimmetrico (oggi diremmo “americana” o “alt-folk”) e la sua voce, “quella voce”.

Eccoli i suoi dischi: 1, 2, 3 e “Scott: Scott Walker Sings Songs from his TV Series”.

Perché Scott, nel frattempo, ha avuto pure uno show alla televisione britannica di discreto successo, e poi ha prodotto della roba – persino in Giappone (i Carnabeats, con i quali canta anche qualche pezzo) – e poi i dischi dell’ex chitarrista dei Walker Brothers , Terry Smith, ed il primo lp di Ray Warleigh (e questo vale la pena di cercarselo: esoterico jazz-rock che anticipa anche scelte future dello stesso Scott) e altra roba.

Non male per uno che scappa come il nostro Scott.

Ma non basta ancora, Scott non è soddisfatto. Se ne va in un convento benedettino a studiare il Canto Gregoriano e poi ancora studi classici, i Lied tedeschi, la “New Thing”, le musiche che si muovono in quel crepuscolo dei ’60. Una commistione tra antico mistero e futuro prossimo.

E, quando è pronto, tira fuori “Scott 4”.

C’è bisogno che ti dica di che straordinario capolavoro si tratti? C’è bisogno che ti dica che, naturalmente, fu un tonfo in fatto di vendite?

La casa discografica e i mercanti di musica, datori di lavoro del nostro Scott, decisero che era arrivato il momento di rimettere in riga il giovanotto e di spiegargli che, sì, si era divertito a fare l’artista stravagante, che si era mangiato qualche decina di migliaia di sterline e che, adesso, la ricreazione era finita.

Non era quello il tuo posto, Scott. Che ci fai lì a scimmiottare la parte dell’artista? Scott non appartiene a Noel!

Svegliati.

Adesso Scott è sveglio, forse davvero per la prima volta nella sua vita: gli hanno messo un guinzaglio e gli hanno ordinato di ballare; e Scott balla.

Vogliono il cantante confidenziale, il melodico sussurratore per le ex ragazzine accalorate dagli ormoni, il professionista pettinato e carezzevole, innocuo e rassicurante?

E lo avranno.

5 dischi dal ’70 al ’74 di annoiato mestiere, tra country, cover prese un po’ di qua ed un po’ di là, musiche da film e canzoni destinate al dimenticatoio. Ma sempre, sempre con “quella” voce.

E Noel?

E’ scappato, si è rifugiato nel fondo di una bottiglia. Alcool e depressione, ed a nulla servono quel che resta del successo e le carezze di Mette, che gli ha dato pure una figlia: la piccola Lee.

Ed infatti, Mette si scoccia di aspettarlo e si porta via anche la piccola Lee.

Ci sei riuscito: ora sei solo, sei veramente solo, Noel/Scott.

Svegliati.

Svegliati, perché ora arrivano gli amici!

Oddio, amici un cazzo! Sono John e Gary, i finti fratelli: le loro carriere sono al palo peggio di quella di Scott. E così, a qualcuno gli viene in mente di rimettere in pista i tre fratelli Walker.

Perché no? E’ un’idea come un’altra, pensa Scott: Il problema sono quei due cazzoni che credono di essere ancora quelli del decennio precedente. Diventa una faccenda di capelli phonati e sorrisi pieni di denti. Prima se la cavano con un pugno di cover e poi, John e Gary tirano fuori una manciata di canzoncine slavate, brutta copia dei loro vecchi successi, convinti che, là fuori, sia pieno di ex-ragazzine in calore pronte a lanciargli addosso i loro reggiseni.

Scott gli butta in faccia le sue canzoni: "Shutout”, "Fat Mama Kick", "Nite Flights", e – soprattutto - "The Electrician" capolavori di gelido modernismo, tra orchestrazioni potenti e folate elettriche, musiche adulte e stranianti. E “quella” voce.

Inutile dire che, tranne un poco il primo disco, gli altri due passano abbastanza inosservati. E’ il ’78 e la musica sta prendendo un’altra strada. Certo è una strada che proprio Scott ha in buona parte tracciato, per la quale si è incamminato per primo e da solo; il pubblico non se ne è accorto, ma molti di quei musicisti che lo hanno seguito, si.

Qualcuno comincia a tributargli elogi (primo fra tutti il solito Julian Cope), da qualche parte si comincia a fare il suo nome, qualcuno comincia a chiedersi dove sia.

Già: dov’è Scott Walker?

E’ scomparso; ci è riuscito. I suoi demoni se lo sono portato via. Puck si è perso tra i boschi cercando la sua luna rosa, Scott è Sigismondo di Polonia che si è perso in quello spazio, impalpabile, tra la veglia ed il sogno.

Passano 6 anni, 6 anni di buio in fondo ad una bottiglia, 6 anni ad urlare coi suoi demoni, 6 anni di lucido sonno senza sogni.

Svegliati.

Perché “Climate Of Hunter”? Perché, così, all’improvviso appare – nel 1984 – quel piccolo gioiello? Forse perché il sorriso di Beverly gli ha mostrato un’uscita? Forse perché Lee, se non proprio a perdonarlo, ha incominciato a cercare di comprenderlo? Forse perché, quando i demoni urlano, solo la musica è in grado di chetarli? Forse, soltanto, perché il suo nome sta diventando di moda fra quelli che contano?

Io non lo so ed, in fondo, neanche m’interessa saperlo. Quello che so è che Scott riappare in uno studio di registrazione, con lui c’è un gruppo di musicisti (e che musicisti! Gente come Evan Parker, Mark Knoplfer, Billy Ocean, Peter Van Hooke, tra gli altri). Julian Cope lo ha praticamente imposto alla Virgin e Scott si è preso tutto il tempo (e pure di più…) che ha voluto; ha preteso che i musicisti suonassero senza conoscere le melodie vocali e che le tracce non avessero titolo così da non avere nessuna idea preconcetta su cui basarsi, così da essere liberi solo di suonare.

“Climate Of Hunter” è un capolavoro, c’è bisogno che te lo dica? Anticipatore di tutti i “post” che poi verranno.

“Climate of Hunter” vende poco più di un cazzo, c’è bisogno che te lo dica?

Così Scott scompare di nuovo.

Stavolta sono 11 anni. 11!

Qualcuno avvista il suo fantasma nell’87. Nel ’92 Goran Bregovic riesce a fargli incidere “Man From Reno” per la colonna sonora di “Toxic Affair”. Scott non c’è ma il suo fantasma si: Bowie incide un suo pezzo, qualcuno comincia a chiamarlo “papà”.

Ma il meglio deve ancora venire. Ma prima devi svegliarti.

Svegliati.

E il risveglio è “Tilt”. Un grumo di sangue vomitato dagli abissi di un’anima affetta da autismo ed azzannata dagli spiriti maligni.

Disco epocale, se mai c’è stato un disco epocale. Indecifrabile monolite nero, in cui i testi (e le loro tematiche) sono persino più scorticanti delle musiche. Sinatra che canta il “Wozzek” di Berg, una colata di fango dolce di miele. La voce di mille demoni che urlano nel buio, una musica mai ascoltata prima. Densa, annichilente.

E “quella” voce.

Inutile dire che il disco non vola alto nelle classifiche di vendita: non ci vai nelle charts con una cosa come “Tilt”.

Ma, ormai, a Scott non gliene fotte più un cazzo. Scompare di nuovo.

E sarà così per tutti gli anni successivi: il fantasma di Scott appare per poi scomparire ad intermittenza. Una collaborazione qui, una produzione là. Un cameo ed una colonna sonora di qua. Persino un balletto per una compagnia di ballerini disabili (And Who Shall Go to the Ball? And What Shall Go to the Ball?).

Altri 11 anni per avere “The Drift” e altri 6 per “Bish Bosh”. Dischi neri di fango, infestati di fantasmi ostili. Musica astratta, più vicina alla Classica contemporanea che al rock cantautorale, non più musica pop ma non ancora avanguardia. La colonna sonora di un incubo. Musica inaudita e “quella” voce.

Ed intanto tutti lì a spellarsi le mani, a dirgli che è un genio anche se il pubblico non lo sa, a cercarlo, a proporgli progetti; da Ute Lemper ai Sunn (((o, da Marc Almond a Thom Yorke a Damon Albarn. Jarvis Cocker se ne fa quasi una malattia….

E Scott?

Scott ha continuato ad andare a letto presto. E, forse, a sognare. E, forse, a combattere con i suoi incubi.

Svegliati.

Lo sapeva Scott che non gli era rimasto il tempo per dare un seguito a “Bish Bosh”? Gliene sarà importato qualcosa? Stava già immaginando un altro futuro perso in quei suoi incubi oscuri? Avrà trovato una tregua con i suoi demoni?

Alla fine dei conti questo “The Childhood of a Leader” resta, che Scott lo abbia saputo o meno, il suo testamento (“Pola X” è più una roba postuma).

Musiche per un film (un buon esercizio di dramma storico dell’esordiente Brady Corbet), musiche astratte e fredde, plumbee e autistiche. Ma soprattutto “mute”: all’addio di Scott manca proprio “quella” voce.

Sarà davvero un caso?

E ora, che ci fai Noel/Scott su quel letto attorniato da volti accigliati? Accigliati come quel ragazzino che odiava il sole della California.

Aspettano di poter piangere il genio scontroso che se ne sta andando in silenzio.

Che ci fai lì Noel?

E’ stato tutto solo un sogno. Un brutto sogno. Ma adesso è finito.

Svegliati!

Svegliati!

Svegliati!

Svegliati…..

“Tutti sognano ciò che sono, ma nessuno lo comprende.” (Pedro Calderón de la Barca)

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