Film premiato con la Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes.
Leggo recensioni entusiastiche di ogni tipo, “Wired: La commedia più bella dell’anno”, “Rolling Stones Italia: Viva ‘Anora’ e Sean Baker, che non sbaglia un film”, “Sentieri selvaggi: Un altro film sulla deriva del presente.”, “Cineforum: Quello che dovremmo sempre esigere dai film in concorso a Cannes”, ecc. ecc.
Quindi entro al cinema con aspettative abbastanza alte per questa pellicola che viene da tutti definita come una commedia che inizia sulla falsariga di Pretty Woman, ma poi imbocca una strada tanto minacciosa, quanto divertente, si ride a più non posso, fino al finale tenero e commovente.
Nella prima parte del film assistiamo alle follie diurne e notturne della protagonista, Anora, una sex worker e di lui, Vanja, giovane e viziatissimo rampollo di un oligarca russo (nessun riferimento al nome del famoso personaggio di Cechov) e del suo squinternato, seppur di più umili origini, gruppo di amici. Quando, dopo una settimana di bagordi, i due si sposano a Las Vegas, la mamma del ragazzo e moglie del miliardario non la prende bene, così inizia la seconda parte del film che vede entrare in azione un terzetto un po’ anomalo di personaggi, un prete, suo fratello e un “gorilla”, che lavoravano per l’oligarca col compito di tenere sotto controllo il ragazzo e che ora devono porre rimedio alla situazione sfuggita loro di mano. Il "tutto in una notte" (il riferimento a Landis è un po’ tirato per i capelli), prima dell’arrivo di mamma e papà il giorno successivo.
Che dire?
La prima parte dura almeno 40 minuti (ma percepite personalmente 2 ore) e all’ennesima scena di striptease, lap dance erotica, sesso, consumo di cocaina e superalcolici, discoteche, casinò e altri divertimenti ameni per giovani depravati, ho cominciato seriamente a rompermi le palle. Un quarto d’ora sarebbe stato più che sufficiente per dare l’idea di quello che stava succedendo senza reiterare all’inverosimile situazioni che non portavano ad ulteriori sviluppi.
Ok, ho pensato, adesso viene la parte divertente, faccio un po’ di stretching alle mascelle per allenarle alle imminenti grasse risate, e assisto, purtroppo senza mai alcuna alterazione facciale e con un principio di mummificazione verso la fine, al resto del film.
Probabilmente sono io che non capisco un cazzo di cinema, ma ho l’impressione che le recensioni lette siano un pochino esagerate e che il premio a Cannes sia stato un tantino troppo generoso.
Conoscevo in parte Sean Baker, perché ho visto e apprezzato altri suoi due film precedenti “Un sogno chiamato Florida” e “Red Rocket”. E’ un regista indipendente e quei due film raccontavano storie molto americane, ambientate ai margini della società del benessere, con personaggi un po’ border line, ma costruiti bene, che alla fine, se non altro, ti davano una rappresentazione realistica e concreta delle disparità sociali, delle opportunità vere o finte, del malessere comunque diffuso e delle speranze ormai infrante di quello che era l’American dream.
Qui, in questa pellicola, ha cercato di restare in equilibrio tra la commedia brillante, un po’ involgarita, e il mezzo dramma ma, tolta la patina erotica iniziale e le giravolte notturne, rimangono solo personaggi appena abbozzati e un susseguirsi di situazioni che raramente riescono a trasmettere emozioni o ad aumentare l’adrenalina. Si salva solo la prova recitativa della protagonista e del terzetto che le fa da contorno per buona parte del film, troppo poco per una pellicola così tanto osannata.
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