La commedia dell'arte. Come qualsiasi altra forma di teatro di prosa, è imparentata di default con l'opera. Opera che, dall'alto della sua nobiltà, arriverà a riconoscere ed abbracciare questo legame solo in fase decadentistica (non decadente, badate bene, è un concetto diverso); tra fine '800 e inizio '900 iniziano a spuntare qua e là opere in cui tra i vari personaggi troviamo colombine, pantaloni, truffaldini, farfarelli, arlecchini e, ovviamente, Pagliacci. Leoncavallo è stato il primo, poi è arrivato Mascagni con un'interpretazione decisamente più leggera e fedele allo spirito originario (Le Maschere), e poi ancora Richard Strauss, che in Ariadne auf Naxos accosta commedia dell'arte e tragedia greca in un delizioso gioco di contrasti. Ma ora entriamo un po' più nel dettaglio: Carlo Gozzi, grande commediografo veneziano, la cui fiaba teatrale "La donna serpente" è l'ispirazione letteraria della prima opera "apocrifa" di un allora perfettamente sconosciuto Richard Wagner, "Die feen". L'esempio più celebre del binomio Gozzi-opera è comunque Turandot, anche se Puccini ne ha rivoltato completamente lo spirito trasformandola in un (grandioso, splendido etc etc...) melodramma eroico; non sono in molti a sapere che qualche anno prima Ferruccio Busoni, noto soprattutto come compositore e virtuoso pianistico, aveva già proposto il medesimo soggetto in chiave comica e fedele all'originale, che prevede l'intervento nella vicenda di personaggi della commedia dell'arte.

Ed è proprio giocandosi queste carte comunque piuttosto inconsuete, Gozzi e commedia dell'arte, che Sergei Prokofiev tentò la conquista dell'America, presentando a Chicago, nel 1921, L'amore delle tre melarance (Lyubov' k tryom apel'sinam), cantata per l'occasione in francese. Sostanzialmente fu un fiasco, probabilmente anche a causa di pregiudizi di natura politica ma, penso, soprattutto per le caratteristiche della proposta stessa, un'opera già stravagante di per sè, soprattutto per un pubblico poco avvezzo a proposte avanguardistiche o anche solo non convenzionali, come in questo caso. La conditio sine qua non per apprezzare e comprendere in pieno questo capolavoro fimato Prokofiev è evitare qualsiasi raffronto con le commedie mozartiane e rossiniane, e anche con i contemporanei lavori di Richard Strauss: i fini sono molto diversi, volti fondamentalmente alla caricatura, ed i mezzi si adattano di conseguenza: L'amore delle tre melarance è un'opera nel più puro stile Prokofiev, caotica, sarcastica, assurda e spezzettata in scene di grandissimo colore e vivacità, e nonostante questo risulta comunque un blocco unico, o la sia apprezza nella sua interezza, o non la si apprezza proprio. Il fascino sta tutto nella sensazione di totale irrealtà che riesce a trasmettere, pienamente percepibile anche da un ascoltatore casuale, anche senza libretto a fronte.

Come nell'Angelo di Fuoco, anche qui l'orchestrazione è piuttosto pesante, ma lontanissima dai canoni tedeschi che prevedono un flusso il più possibile avvolgente e costante, al contrario, Prokofiev ubriaca, direi quasi letteralmente, l'ascoltatore con un continuo susseguirsi di leitmotiv, melodie mai pienamente sviluppate (di conseguenza nulla che somigli anche solo vagamente a un'aria), cambi di tempo e dissacranti interventi corali nei momenti meno opportuni. Nonostante il soggetto puramente satirico, le atmosfere sono spesso tenebrose e inquietanti, perfette per sottolineare l'apparente irrealtà del mondo bizarro in cui si svolge la vicenda, e nei momenti più tesi (ad esempio la partita a carte tra il mago Celio e la fata Morgana) si percepisce immediatamente che la mano compositiva è la stessa della celeberrima danza dei cavalieri. Per farla breve, ecco la riduzione in forma sinfonica (prassi molto comune all'epoca), tutta l'atmosfera magica e farsesca dell'opera condensata in un delizioso quarto d'ora. Nella sinfonia mancano ovviamente le numerose parti vocali, tra cui spiccano particolarmente il Principe e Fata Morgana: con il primo, Prokofiev "reinventa" la vocalità da tenore leggero, a circa un secolo dai fasti rossiniani e belliniani, con la seconda utilizza magistralmente un soprano drammatico in un contesto decisamente inusuale. Non dimentichiamo la particina della "terribile" Cuoca, con ogni probabilità l'unico ruolo da basso (basso profondo, per giunta...) en travesti nella storia dell'opera tutta. Puro e semplice estro creativo. Adoro. Ah, e volendo, ci sarebbero anche svariati simbolismi e ancora più svariante possibili interpretazioni estrapolabili a piacimento, ma stavolta no, limitiamo a goderci senza troppe complicazioni un eccentrico capolavoro teatrale-musicale.

Nonostante il flop della prima, il giornalista e scrittore Ben Hecht espresse su quest'opera un parere controcorrente: "There is nothing difficult about this music, unless you are unfortunate enough to be a music critic. But to the untutored ear there is a charming capriciousness about the sounds from the orchestra." Concordo pienamente, e L'amore delle tre melarance nel tempo è diventata l'opera di Prokofiev meglio inserita nel repertorio internazionale, dove i lavori di compositori russi, anche per ragioni di isolamento culturale, entrano con molta più difficoltà rispetto a italiani, tedeschi e francesi. Un'altra ragione per cui la si vede piuttosto di rado nei teatri è senza dubbio un copione a dir poco complicato da inscenare degnamente, con tutte quelle magie ed effetti speciali; un autentico rompicapo per registi e performers, ed un costo immagino decisamente salato, ma una fiaba gozziana rielaborata con così grande sagacia ed ispirazione in stile operatico modernista-decadentista non merita nulla di meno. Chiudo sottolineando che Prokofiev, non pago di questo insuccesso critico, si mise immediatamente al lavoro su un nuovo soggetto, nientemeno che L'Angelo di Fuoco: per la serie "non vi è piaciuta questa, allora vi propongo qualcosa sulla stessa falsariga e per di più estremizzata e infarcita di contenuti blasfemi." Basta questo per considerarlo il jokerman dell'opera novecentesca.

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