Ormai avrà circa una decina di anni, ma "Shine" è uno di quei film che non si dimenticano facilmente, se non altro perché è tra i pochi che trattano di musica con competenza e passione, oltre a rappresentare magistralmente la tormentata vicenda umana del pianista David Helfgott, cognome che suona un po' beffardo (più o meno significa "Dio ti aiuti").

Se il protagonista è chiaramente lui, il ruolo dell'antagonista è meno chiaro. Quello più diretto è il padre, burbero e autoritario, una specie di sergente che con i suoi modi rischia di spegnere la passione per la musica nel giovane David. Ma c'è un antagonista sotterraneo, più subdolo, che alla fine avrà la meglio sul delicato sistema nervoso del povero David. E' il famigerato "Rach 3", il Terzo Concerto di Rachmaninoff, una colossale montagna di suoni che fin dall'infanzia rappresenta per David un tabù, una prova da superare a tutti i costi. Il tabù alla fine sarà infranto, ma ad un prezzo salatissimo: proprio alla fine di un estenuante concerto la mente di David partirà per mondi sconosciuti, per tornare sulla Terra solo dopo molti anni di sofferenza in un manicomio. Ma che cos'ha di così terribile il "Rach 3" ?

Per una mente ipersensibile probabilmente è micidiale l'overdose di sensazioni che vi è contenuta, più ancora del tour de force che rappresenta per qualsiasi pianista, con i suoi tre quarti d'ora che tengono il pianoforte sempre sulle spine, impegnato più che a dialogare a combattere contro un'orchestra poderosa. Sergei Rachmaninoff fu un insieme vivente di contraddizioni. Era un omone di 1,95 con mani enormi come badili, eppure fu uno dei più grandi virtuosi della tastiera del suo tempo. Era un tranquillo padre di famiglia che conduceva una vita riservata, eppure compose musiche dalla sensualità sfrenata, a volte quasi sfacciata. Ma soprattutto, pur vivendo fino al 1943, risentì poco o niente delle rivoluzioni musicali del primo '900. Il suo stile rimase sempre quello di un tardoromantico come il suo vecchio maestro Tchaikovsky, e anche in pieno Novecento continuò a comporre musica tipicamente ottocentesca. Questo Concerto, che ebbe un battesimo d'eccezione (fu diretto da Gustav Mahler nel 1909), esprime in pieno la straripante ricchezza cromatica delle composizioni "russe", quelle precedenti al forzato trasferimento in America in seguito alla rivoluzione russa del 1917, che privò i benestanti Rachmaninoff dei loro possedimenti. Negli USA Rachmaninoff trovò la fama e la ricchezza, ma smarrì quasi del tutto l'ispirazione.

Il Terzo Concerto si apre con un "Allegro ma non tanto" in cui si fronteggiano e si intrecciano con varie combinazioni due temi: uno nervoso e drammatico, l'altro più languido ed elegiaco. Il primo tema viene esposto dal piano quasi in tono dimesso, ma è solo un'illusione: alla seconda esposizione ha già assunto le sembianze di una cascata di note, per non parlare dell'inquietante riepilogo finale, in cui le note sembrano ribadite a martellate. Il secondo tema interviene più volte a spezzare la tensione del primo. Spicca, più o meno a metà del movimento, un frenetico "ponte" in cui pianoforte e orchestra sembrano ansimare all'unisono, con progressiva accelerazione fino all'esplosione liberatoria delle trombe: una specie di "orgasmo musicale", il culmine di quella sensualità di cui il concerto è pieno. Nel secondo movimento, "Intermezzo (Adagio)", il pianista può tirare appena il fiato all'inizio, quando l'orchestra disegna un motivo orientaleggiante, che fa pensare all'esotica "Sheherazade" di Rimsky-Korsakov (altro illustre maestro di Rachmaninoff). Ma ben presto il piano viene richiamato in causa per arricchire il "tema arabo" e i suoi sviluppi con preziosi arpeggi, trilli e dolci scale di note. Quando ormai l'ascoltatore è prossimo alla trance, un improvviso scossone introduce il terzo movimento, "Finale (Alla breve)", il cui tema principale è esposto un po' meccanicamente dal pianoforte con note ben staccate, poi rielaborato in complessi sviluppi, infine ripreso con un'accelerazione devastante, che a sua volta prepara un finale trionfale, in cui una melodia tenera e romanticissima riesce ad aprirsi un varco in un poderoso e compatto muro di suono orchestrale.

Dopo questa descrizione, e tenuto conto di quello che è successo a David Helfgott, a scanso di equivoci è bene chiarire che non c'è da avere paura: il Concerto è stupendo e godibilissimo per l'ascoltatore. Magari lo sarà un po' di meno per chi lo deve eseguire, ma alla fine deve essere enorme la soddisfazione di avercela fatta, specie se egregiamente come Martha Argerich in questa esemplare interpretazione. Esistono anche versioni del povero Helfgott, sul quale dopo il film qualche sciacallo ha speculato: interessanti ma solo per capire la sensibilità del pianista.

Concludendo, una valanga di note potrà impressionare, ma non ha mai sotterrato nessuno. O quasi...

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