Colto da fallace desiderio, mi svegliai di soprassalto quella notte, peccaminosa ebbrezza solleticò i miei piedi e mi destò, stemperando lesta nell’aria azzurra del mattino. Passai l’ora dell’alba sdraiato su una stuoia di panno, fissando il soffitto, coricato, sognante ed accompagnato da canti di sirena ed echi lontani. Sensuale serpente insidioso, la voce di una eterna promessa mai doma, si insinuava nei miei orecchi, voleva lambire l’anima. Rettitudine però, volle ch’io non caddi nelle grinfie perfide di colei che canta dall’altipiano e dal Rio grande. Tentatrice con cappelli di paglia e stivali di pelle, segno di terre e generazioni di polvere e fieno. Ammaliatrice! Mai espresso nella sua splendida cenerinità, anche il sommo Dylan cascò davanti ad un talento avvertito, davanti a cotanta cantautoriale femminilità e copiosa, sensuale vocalità. Intima in quel mattino come di verità rivelata, sussurrata piano, dolcemente, all’orecchio. Sentimenti eleganti e intuizioni latenti perse in armonici rotondi classici non mai scontati, persuadono l’anima anche più insicura della bontà di quel momento, di quell’istante irripetibile per l’altre poche tappe di una carriera comunque aggraziata.
Rimangono d’ella i cerchi a percorrere chilometri e nubi a bagnare le passeggiate in bicicletta... l’amor se si muovesse correrebbe su due rote, “Lance, aspettami!”… “Eh, ma quello viaggia a 50 all’ora e pur senza motore!”
Ecco svelato l’arcano, povera odalisca infatuata e rustica, a lei è toccata l’autovettura, il motore a scoppio e non il cavallo, né il velociclo, l'è stata tolta, rubata la poesia leggiadra e fuggiasca della natura, indifesa, è stata presto consegnata alle mani fameliche dei pirati, che la condussero con loro sulle rotte della perdizione, verso l’isola del tesoro, verso la ferma terra…

Rubano fiori nei giardini ancor prima ch’essi sboccino.


 

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