Ed ecco un altro secondo lavoro che in tanti, erroneamente secondo me, hanno etichettato inferiore all'esordio. Immediata la bellezza al primo impatto che viene supportata, dopo alcuni ascolti, dall'interfaccia intima che poi non ti molla più.

Tutti i pezzi coinvolgono e raccontano vari livelli di percezione in maniera diretta, partono chitarre acustiche, trombe, archi, che creano un'atmosfera profonda ma dinamica. Siamo in pensieri che sublimano il ricordo della nostra traversata oceanica in nave, indi lanciati nella polvere del viaggio sopra una diligenza che ci trasporta non si sa dove. Il distacco è dolce.

La voce di Jeffrey Clarke (musica e testi quasi tutti da lui) rimanda a doorsiani ricordi ma l'originalità e l'imprinting sono tutti suoi. E capiamo che belle ossa si è fatto Grant Lee Phillips, poi Buffalo, anzi oserei dire che con questi due lavori con gli Shiva è partito col botto, conseguenziali poi i suoi lavori solistici con una così intensa gavetta attiva con Clarke.

E mentre il primo disco ci estasiava con ballate onirico psichedeliche tutto sommato apolidi, in questo qui si gusta un suono che devia su trascendenza western, che ci fa vedere l'altra faccia della frontiera, quella favoleggiante, imperlata della magia degli orizzonti infiniti americani ammirati nella fretta, essendo impegnati a costruire la sopravvivenza.

Partite a poker giocate nel deserto dentro miraggi di saloon, il succo di cactus è riconciliante dalla fatica pionieristica. È tutto lì davanti, cristallino, e la notte le stelle si vedono tutte. Nel ricordo del dolore provato sorridiamo felici. PEACE!

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