Ad un anno e mezzo dalla prima apparizione italiana dei Sigur Rós (Teatro Ciak di Milano, 12 aprile 2001, il peggior concerto mai suonato a loro stessa detta), torno a vedere il quartetto islandese, di scena a Milano al Rolling Stone.
Arrivo in ritardo. Fuori poca ressa, qualcuno più ritardatario di me si affretta al botteghino. All’interno non troppa gente, neanche troppo poca.
Si spengono le luci e si parte.

I quattro iniziano con i primi tre pezzi del nuovo album e subito creano un'atmosfera sospesa e ovattata; il farsetto etereo di Jonsi al microfono si sposa con le tastiere di Kjartan, il tutto accompagnato dagli archi delle Amina Strings, quattro fanciulle che affiancano il gruppo a suon di viole e violini già da 2 anni. Sullo sfondo scorrono immagini sfuocate e tenui, mentre due palle colorate proiettano luci sulle facce ipnotizzate del pubblico.
Si passa ai pezzi più conosciuti di Agaetis Byrjun e Jonsi inizia a torturare la chitarra con l’archetto da violino. Il suono che ne esce è sinfonico ed elettrico, dolce e glaciale allo stesso tempo.
Il gruppo propone poi un pezzo inedito che si chiama proprio Milano (a memoria della performance al Ciak, una chicca perché solo una volta è stata suonata in precedenza), prima di concludere con le canzoni più datate del primo album, Von e Hafssol, riarrangiate in versione live.
La batteria si fa più insistente, il basso di George è suonato con una bacchetta da rullante e la battuta incalza: è il preludio al gran finale con Popplagid.
Il suono minimale ed avvolgente cresce in una ritmica coinvolgente, la voce di Jonsi diventa uno strumento e si fonde con gli archi, ormai impazziti. Sono 15 minuti in crescendo che letteralmente paralizzano, lasciano senza fiato.

Ghiaccio e fuoco: in una parola, Islanda.

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