I Simple Minds non hanno bisogno di presentazioni. La formazione di Glasgow ha scritto una parte importante della musica degli anni '80. Dal vivo il gruppo possedeva una forza davvero notevole, merito anche del suo leader, il carismatico Jim Kerr, capace di tenere il palco come pochi in quegli anni.

Questo è il terzo capitolo della loro lunga storia, e viene anche ritenuto l'episodio più "dark" della loro carriera.
Siamo nel 1980, e i Simple Minds dopo due lavori ancora alla ricerca di una piena identità sfornano questo disco che spiazza critica e fans contemporaneamente. Infatuati forse del ballabile tecno-decadente tanto in voga nel periodo e soprattutto dai ritmi robotici dei Kraftwerk, Kerr e soci decidono di virare verso un sound compresso e meccanico, claustrofobico e oscuro, confuso e straniante. Per far intendere da subito come stanno le cose piazzano "I Travel" come traccia d'apertura, e la scelta non poteva essere migliore. Il brano infatti è il manifesto di questa nuova direzione, un incubo futurista, un ballabile tecnologico per discoteche intellettuali frastagliato da intricati giochi di synth, con un ritornello che apre leggermente la melodia per poi precipitare nuovamante in un travolgente ritmo meccanico.
Di squarci di cielo sereno manco a parlarne, anzi se possibile "Today I Died Again" rende il paesaggio ancora più cupo con il suo claustrofobico tappeto elettronico. Kerr declama da lontano, con una voce carica di eco, minacciosa e accusatoria.
L'ipnotica "Celebrate" è una nenia scandita da un ticchettio sintetico, preludio alla lunga danza decadente profumata di orientalismi di "This Fear Of Gods", 7 minuti di inesorabile discesa in un disagio psicotico e malato.
Alcune volte questi arrangiamanti cupi ed ossessivi sono la scusa per mettere in scena le recite di Kerr come nel caso di "Constantinople Line" e della successiva "Twist-Run-Repulsion" un esperimento d'avanguardia che vede duettare Kerr con una voce femminile in francese, in un registro da cabaret espressionista.
"Room" chiude il discorso, con le tastiere ancora grandi protagoniste, a modellare un suono in crescendo che sembra voler esplodere da un momento all'altro, per poi frenare improvvisamente.

In conclusione, un lavoro morboso ed ossessivo, spaventevole, forse un po' monocorde ma affascinante, indubbiamente un disco da possedere, tra le migliori testimonianze del periodo.

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